Arezzo, 13 marzo 2011 - TU CHIAMALA se vuoi globalizzazione. Del commercio. Nel senso che ti giri intorno nel centro di una qualsiasi città europea e non sai più dove sei, se ad Arezzo o a Modena, a Friburgo o ad Aix en Provence, tanto per citare capoluoghi delle dimensioni del nostro. Che adesso compie un altro passo sulla via di questa standardizzazione dei modelli del consumo.
Arriva un altro gigante della distribuzione in grande stile, arriva un altro nome diffuso in mezzo mondo. Stavolta è Yamamay, che apre all’angolo fra via Madonna del Prato e vicolo Pietro da Cortona, in quello che fino a qualche mese fa era il negozio aretino di Sarabanda e prima ancora il quartier generale di Monica Bettoni nella sfortuna corsa a sindaco del 2004.
All’appello dei giganti dell’intimo che da tempo si combattono nel salotto buono cittadino (e anche con la pubblicità delle modelle seminude) mancava appunto solo Yamamay, sigla esotica ma di Gallarate, come a dire un’altra griffe del made in Italy. C’erano già infatti Tezenis come Intimissimi e Calzedonia. Così come c’erano, per parlare di catene internazionali dell’abbigliamento o della grande distribuzione, Benetton e Sisley, Lacoste e Max Mara, Zara e Oviesse, così citando a caso.
MA QUEL CHE interessa non è tanto una guerra al ribasso sui prezzi delle mutande o della canottiere, delle gonne o dei golfini, quanto il fenomeno più complessivo che sta mutando il volto del commercio aretino nel suo salotto buono preferito che è il centro in generale e il Corso in particolare. Un fenomeno che si chiama allargamento a macchia d’olio dei grandi marchi in franchising o comunque in licenza, a spese dei negozi indipendenti. Ci sono sempre meno negozi made in Arezzo, dinastie commerciali autoctone, e sempre più vetrine delle grandi catene internazionali, negozianti che si rifugiano sotto l’ombrello del nome della moda che fa tendenza. Yamamay è solo la conferma di una regola diffusa, magari con qualche particolarità, perchè il marchio è così potente che chi lo rappresenterà è evidentemente certo di riuscire ad attirare la clientela anche senza affacciare le proprie insegne sul Corso, accontentandosi di una sede più defilata.
CHE SUCCEDE allora? Perchè il commercio indipendente, che pure nel nostro centro conserva una presenza più importante che in altre città delle stesse dimensioni, cede piano piano il passo ai marchi internazionali e impersonali? E’ innanzitutto una questione di vil denaro. I costi per guadagnarsi un posto al sole nel salotto buono stanno ormai diventando insostenibili. Tanto per dire, la buonuscita che bisogna pagare per subentrare a chi già c’è si aggira ormai sui 300-350 mila euro al Corso e su cifre un po’ inferiori ma sempre sostenute nelle vie limitrofe. Il che significa che avviare una nuova vetrina comporta una spesa in entrata, compresi stock merceologico e costi fissi vari, non inferiore a mezzo milione e spesso vicina a uno. E’ chiaro che siamo di fronte a numeri sostenibili solo (o quasi) dalla grandi catena che riescono ad ammortizzarli con la loro distribuzione capillare in mezzo mondo. Il commerciante indipendente, invece, rischia l’osso del collo. Se sbaglia va fallito.
E poi lavorare in franchising è più facile: le spese di pubblicità le copre il marchio, che si occupa anche dell’allestimento della vetrina nella singola città (sono tutte uguali, ci pensano gli uffici marketing), del rifornimento del campionario e quant’altro. Insomma, per il commerciante licenziatario c’è meno rischio imprenditoriale e più comodità.
SENZA CONSIDERARE la grande forza impersonale di un gusto collettivo forgiato dalla pubblicità, dalla Tv e da Internet, che spinge milioni di consumatori a privilegiare sempre gli stessi marchi, qui come altrove. Le città come i «non luoghi» dei sociologi, cariche di storia ma identiche l’una all’altra quanto a vetrine. Ecco perchè il volto commerciale del Corso è radicalmente cambiato negli ultimi trent’anni e assomiglia più a una qualsiasi città europea di oggi che non al Corso del 1970. Yamamay ne è solo un esempio. Riusciranno i nostri eroi del commercio indipendente (e da queste parti ne restano ancora molti, da Sugar a Donati, da Maior a Sabot, da Banchelli a Paolo Ricci) a impedire che fra un decennio l’aretino medio non sappia più se vive qui o chissà dove?
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