Firenze, 21 agosto 2011 - PARE che Gwyneth Paltrow l’abbia fissata per ore prima di calarsi nella parte di un’americana in Italia nel “Talento di Mr. Ripley” e che anche Dustin Hoffman ne abbia acquistato una copia. «Ci saremmo dovuti incontrare, ma qualcosa è andato storto quel giorno. Mi hanno detto che si è arrabbiato molto», ride. La ragazza che sfila a occhi bassi in mezzo a quindici uomini davanti al Caffè Gilli a Firenze, nel celebre scatto di Ruth Orkin, “An American Girl in Italy”, oggi ha 83 anni. Ed è ancora bellissima.
Ninalee Craig ne aveva 23 il 22 agosto del 1951 quando la sua amica Ruth la immortalò in quella foto, sperando di venderla all’Herald Tribune. «Aveva 28 anni e lavorava come freelance. Se fosse riuscita a venderla ci avrebbe guadagnato 50 dollari, due settimane di albergo. Ma l’Herald Tribune non la prese e io di quella foto non ne ho saputo niente per anni. Certo non ci ho mai ricavato un centesimo». Era solo una delle tante che la Orkin scattò quel 22 agosto di 60 anni fa: Ninalee che beve un espresso, Ninalee sotto la Loggia dei Lanzi e davanti a un ufficio del telegrafo, Ninalee che chiede informazioni a un vigile che dirige il traffico. Quelle foto sono sul tavolo del livingroom del suo appartamento di Yorkville, il quartiere di lusso di Toronto.
L’unico posto dove puoi illuderti che qualcuno ti lanci uno sguardo mentre cammini per strada. «In Nordamerica non si usa. In Italia è normale. Dovunque andassi era così, avevo gli occhi addosso, ma non mi sono mai sentita molestata, anzi. È come se quegli sguardi mi trasmettessero sicurezza in me stessa: mi veniva da alzare un po’ più il mento e da andare avanti a testa alta. Fa bene quel tipo di sguardo», ride.
Per anni si è sentita chiedere - «soprattutto le donne» - se era stata infastidita, imbarazzata, spaventata addirittura da quegli sguardi. «Not at all. Mi stavo divertendo», dice rivendicando la sua spontaneità e il diritto di passare indisturbata in mezzo a un gruppo di uomini con la sicurezza dei suoi 23 anni, un album da disegno sotto braccio e uno scialle arancione, che conserva ancora, appoggiato su una spalla («Era caldissimo, ma lo usavo per coprirmi quando dovevo entrare in una chiesa»). «Mi sentivo Beatrice. Studiavo la Divina Commedia ed era come se a ogni passo, ogni momento, Dante dovesse vedermi e dedicarmi una poesia.
Ero la sua ispirazione. Ero Beatrice». Una musa, insomma. Il contrario di quello che per anni ha sostenuto chi ha voluto trasformare “An American Girl in Italy” in un’icona del femminismo o nell’emblema del machismo italiano. «Absolutely not. Ruth era un’artista: sapeva riconoscere all’istante una bella fotografia. Nessuno era in posa. È stata scattata in meno di 30 secondi. Ma oggi siamo solo in 3 a testimoniarne la spontaneità: abbiamo 81, 83 e 86 anni» e ride come ne avesse ancora 23.
C’È un uomo che sembra urlarle qualcosa, appoggiandosi una mano sul cavallo dei pantaloni. «Non stava urlando proprio niente. Credo che ogni uomo italiano possa sentire il suono che esce dalla sua bocca semplicemente guardando la fotografia. Non è un fischio. È una specie di cinguettio che solo gli uomini italiani sanno fare. E poi quel gesto, toccarsi il cavallo dei pantaloni, è così italiano. È un portafortuna. Dio cammina con me - dice in italiano - vuol dire quello. Non è volgare e gli italiani lo sanno. Non importa spiegarglielo». E lo sa bene anche lei che un italiano se l’è sposato. «Era veneziano, ma abbiamo vissuto a Milano.
Ci siamo conosciuti a New York quando avevo 29 anni e non pensavo più che mi sarei sposata. Lui era vedovo e aveva un figlio. Quando l’ho visto ho sentito il cuore che si scioglieva. Non mi ha mai fatto una vera e propria proposta di matrimonio, ma insistette perché conoscessi i genitori (in italiano ndr.). Quando vado in Italia torno sempre a trovare la famiglia a Treviso. Abitare là è stato meraviglioso. L’Italia ha tutto e la gente è adorabile, lovely».
NINALEE si è divorziata, si è risposata con un canadese, acquisendo la cittadinanza, e oggi è vedova. «Amo Toronto. Mi sono trasferita otto anni fa e ci voglio stare il più a lungo possibile. L’Italia, però, fa parte di me da sempre. Quando arrivai, nell’aprile del 1951, avevo la sensazione che avrei trovato un pezzo di me che non ero riuscita a trovare in America». Aveva solo una valigia legata con lo spago e un indefinibile senso di appartenenza. «L’Italia era dispiegata davanti a me. Non c’erano tanti turisti ancora. In cima alla Torre di Pisa ero da sola.
Anche la Cappella Sistina era quasi vuota. Non mi ricordo quanto sono rimasta seduta a guardare il soffitto. Anche Assisi mi ha emozionato molto. Quando mi sono sposata la prima volta, in piazza San Marco a Venezia, mi sono dovuta battezzare e come nome ho scelto Francis in onore di San Francesco. Nel 1951 sono rimasta sei mesi. Poi sono dovuta tornare in America perché avevo finito i soldi».
NINALEE torna abbastanza spesso in Italia per andare a trovare suo figlio, che insegna all’università di Bologna, e i suoi tre nipotini, Lorenzo, Edoardo e Federico. «L’ultima volta sono tornata due anni fa. Era patetico. Ah, Mr. Berlusconi (sospira ndr.)... ecco cosa succede quando si dà troppo potere a una sola persona. Ma l’Italia ce la farà, supererà anche questa. Gli italiani non si perdono mai d’animo. La loro grande forza sono i legami familiari. La famiglia e il cibo in tavola, è questo che conta per loro. Altre priorità rispetto al Nordamerica, ma la loro forza sta tutta lì».
La sua foto è dappertutto in Italia, nei bar, nei ristoranti, anche dai calzolai. «A volte mio figlio la guarda e dice: “È mia madre quella”. Molti pensano che sia uno scherzo. Altri chiedono: “È ancora viva?”» e ride di nuovo, fasciata in un’elegantissima camicia bianca davanti a un autentico De Chirico («Era di famiglia»). Quella foto non le ha cambiato la vita. «Per me è solo un passaporto per incontrare nuove persone». Però, negli ultimi anni, gliel’ha movimentata un po’. «Quando la gente scopre che sono ancora viva mi vuole conoscere. La storia che c’è dietro a quello scatto è bella e alla gente piace ascoltare belle storie. C’è bisogno di buone notizie nel mondo».
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