GABRIELE LASTRUCCI
Cultura e spettacoli

A proposito di due libri di Emiliano Gucci

Lo scrittore e poeta Gabriele Lastrucci analizza gli ultimi lavori dell'autore fiorentino, trapiantato a Prato

Emiliano Gucci

Firenze, 26 settembre 2017 - Ospitiamo volentieri questa riflessione del poeta pratese Gabriele Lastrucci sugli ultimi lavori di Emiliano Gucci. Il suo libro più recente, uscito a maggio per Feltrinelli, è "Voi due senza di me". Fiorentino, Gucci vive a Prato da sei anni e lavora alla libreria Feltrinelli di via Garibaldi: un caso davvero più unico che raro di un autore che lavora come dipendente per la casa editrice che lo pubblica.

PER MOLTO tempo ho cercato di decifrare l'oscura forza di un testo letterario, di un'opera d'arte, attraverso il solo strumento della ragione culturale. Per molto tempo ho ingenuamente pensato che lo scrittore dovesse essere prima di tutto un rigido e infallibile letterato, un intellettuale colto e raffinato che non dovesse quasi mai cedere all'istinto, all'errore, al giusto e sovrumano caos delle cose. Per molto tempo ho dubitato che la sola e primitiva potenza dell'intuizione e del lavoro cieco e instancabile potessero costituire il pernio e la scintilla spirituale per un grande atto creativo. Per molto tempo mi sono sbagliato... naturalmente. D'altronde, come recita inesorabilmente un antico versetto del Talmud: Tutto è Diverso. E tutto è stato veramente, ferocemente diverso quando ho iniziato, ricolmo di dubbi e insopportabili reticenze intellettualistiche, la lettura dell'ultimo romanzo di Emiliano Gucci: Voi due senza di me.

Le prime cinquanta pagine del suo lavoro recavano nella lettura qualcosa di troppo classico, di troppo controllato, e avevo il timore che lo scrittore fiorentino avesse avuto quasi una sorta di pudore nello sviscerare le insondabili sofferenze e bestialità dell'animo umano. Temevo che Gucci fosse inciampato in un'aiuola di fiori troppo regolari, del tipo che tanto rattristava il grande Pessoa (che pena mi fanno i fiori dei giardini regolari, sembra che abbiano paura della polizia, così si espresse Fernando nel suo capolavoro: Il Libro dell'Inquietudine). Nulla, in quelle pagine, mi aveva preparato alla travolgente corrente scritturale del seguito, una corrente che mi avrebbe poi trascinato in un gorgo infuocato fino allo straordinario esito dell'opera.

La storia d'amore narrata, superate le tranquille acque dell'incipit, s'infiamma e si trasforma inesorabilmente in uno scenario potentemente tragico. Attraverso alcuni perfetti ordigni narrativi (il più drammatico e dantescamente infernale di tutti è sicuramente la spietata lotta tra due cani inferociti a cui il protagonista maschile (Michele), e assieme a lui tutta una Firenze immortalata da Gucci in un immenso azzurro ancestrale, che tanto contrasta con il nereo biancore della vicenda umana narrata, assiste impietrito) sembrano rimandare ad un quadro di Caravaggio selvaggiamente squarciato da un film di Tarantino, più che a un pacifico e rasserenante dipinto romantico.

Nella seconda parte del libro, dove i due protagonisti s'incontrano a dieci anni di distanza come raggelati da un fatale lampo temporale, la follia si esprime in tutta la sua dolorosa bellezza nello scenario nevoso che incornicia la protagonista (Marta) facendole incontrare, su una gelida panchina oracolare, una vecchia e follemente veggente Circe che sembra gettare un improvviso fuoco di verità nel suo sperduto cuore (e anche nel nostro: così buio, ormai lacerato cuore) quasi a illuminare di senso una storia, un profondo mistero, che incatena come dannati i due amanti. E tuttavia, ancora una volta, l'autore non è lì dove crediamo di trovarlo, egli, come un oscuro angelo ubriaco, ci fa sbandare nell'irrimediabilità e nell'insolubilità delle cose umane, della vita stessa. (Gli avvenimenti importanti della vita si compiono in uno spazio che mai la parola ha varcato. La verità è indicibile. Così ci ammonisce Rilke nella celebre Lettera ad un giovane Poeta).

Per certi aspetti, il libro di Gucci rimanda, seppur con il carattere e la forza di un'opera unica, al Gattopardo del Lampedusa. Ha la sua stessa sanguigna classicità, la sua stessa pessimistica ma profondamente vitale visione del mondo, la sua stessa forza espressiva ed esistenziale. Ma si potrebbero affiancare all'opera di Gucci anche altri classici contemporanei: da Le Braci di Sandor Marai a Una questione privata di Fenoglio. Una particolarità nella sua personalissima cifra stilistica è rappresentata sicuramente dall'uso metaempirico dei colori.

Se nel primo incontro fiorentino tutto è pervaso da un'immane e incendiaria azzurrità, la seconda scena narrativa viene inquadrata splendidamente attraverso un biancore sporco e lancinante (come non ricordare a tale proposito la straordinaria trilogia filmica dei colori dell'immenso regista polacco Krzysztof Kieslowski).

Potrei anche finire qui il mio discorso sull'opera dello scrittore toscano e affermare che egli s'inserisce come un poderoso faro nello scenario, spesso deprimente, della letteratura italiana contemporanea. Ma tutto questo, che per Voi due senza di me può avere un qualche, anche se limitato, valore interpretativo, viene violentemente contraddetto (almeno in parte) dalla lettura del suo precedente libro: Nel Vento.

Nel Vento è un romanzo breve, come lo scatto sulla pista che deve affrontare il suo protagonista, ma infinitamente più ardito e sperimentale. Nelle poche, densissime e magmatiche pagine di questo piccolo gioiello letterario, si assiste al disfacimento narrativo e linguistico tipico di una certa letteratura del Novecento, una letteratura di razza, s'intende (Cortazar, Joyce, Bernhard).

Attraverso la scarna intelaiatura dell'intreccio, quasi supremamente sintetica come una statua di Giacometti, si viene intrappolati in una vera e propria tragedia contemporanea. Dietro la realistica metafora di una corsa podistica si assiste al crollo definitvo e implacabile di tutte le speranze e i sogni umani: dell'inutilità ed infinita vanità di tutte le cose, direbbe Leopardi. La difficilissima architettura dei vari, brevi e folgoranti capitoli, è legata da un fittissimo labirinto di intarsi simbolici, da incessanti glaciazioni ed esplosioni di attimi che polverizzano il racconto in una miriade di simultanee percezioni. Il passato, il presente e il futuro sono fusi tra loro come un incandescente nucleo di tempo che riaffiora dal testo in modo inatteso e straordinario: come un violento sasso scagliato negli occhi del lettore.

Poco conta se il dramma iniziale (manifesto elemento noir che rappresenta l'unico vero contatto con il romanzo successivo) non si risolve in una luccicante, ancorché artificiosa, panacea conclusiva. La circolarità forzata, in questo caso, sarebbe stata una sicura facilitazione per il lettore, ma avrebbe terribilimente impoverito la genialità e l'originalità dell'opera stessa. Esso (l'omicidio del fratello operato dal padre) funge come un cosmico Big-Bang che non smette mai di eruttare nella mente del protagonista eterni fulmini di vissuto, portandolo necessariamente (e con lui l'intero mondo) verso l'inevitabile, eppure eroico, dissolvimento. Dunque, infine (anche se la fine, forse, non c'è, e Tutto è maledettamente sempre Diverso), questi due libri di Emiliano Gucci, non sono soltanto il frutto di un incessante (e sommamente inutile) accumulo culturale-letterario.

Forse, ancora una volta e definitivamente, occorre avere un profondo senso di umiltà verso lo stesso atto creativo. Un'umiltà che urla che lungi dal guardare fuori, verso l'esterno - nei titoli degli altri, nei libri degli altri, nelle vite degli altri - bisogna soprattutto chiudere i nostri polverosi occhi e guardarsi dentro. Forse è la nudità che va cercata con forza e abbandono e non, o non solo, l'abbondanza (anche se solo culturale). Forse scrivere, come giustamente osservava Michelangelo, è più un togliere che non un insensato e affannoso aggiungere ed accumulare senza sosta. Forse, dopo sterminate ore e giorni e anni di lettura (quelli che sicuramente ha fatto, e che continua a fare, Emiliano) l'artista, l'uomo, deve prima dimenticare tutto per trovare la propria voce. Forse, ancora, egli deve dolorosamente dimenticare quella stessa voce che aveva trovato in principio e abbandonarla per sempre, per andare a cercarne un'altra nuova altrove, nel buio, insondabile e colossale abisso della propria anima. Per poi, come un monaco ferito e illuminato, dimenticare anche se stesso... E perdutamente, Trovarsi...