
L'arcivescovo Betori
Firenze, 17 novembre 2015 - La città della gioia. Parafrasando un bestseller, Firenze nel giorno della visita di Papa Francesco ha offerto il meglio di sé, ricambiata dal Santo Padre, che non si è sottratto agli abbracci. «E il dono più bello che la visita ci lascia e che dobbiamo far crescere è di riferirci sempre a lui, come un fondamento certo anche nei momenti di dubbio, che stiamo vivendo in questi giorni». L’arcivescovo Giuseppe Betori, nel tracciare un bilancio del Convegno ecclesiale nazionale e della presenza del Papa in città, ha toccato anche argomenti di stretta attutalità come gli attentati di Parigi e il caso della mostra “Divina bellezza” negata alla scuola Matteotti per non urtare, come riferito da alcuni genitori, la sensibilità dei non cristiani. «Se la motivazione è questa - ha sottolineato nel pomeriggio a “Radio Toscana” - emerge un problema educativo: non riguarda la religione, ma la realtà. La mostra non è di arte sacra, ma di arte che si confronta con il sacro. Mi ha fatto piacere che l’imam Izzedin Elzir abbia detto che ci porterà i figli: non perché si convertano, ma capiscano. Se qualche problema questa mostra la pone, non la pone ai credenti di altre religioni ma semmai a qualche cattolico con il cuore un po’ ingenuo».
«Non sono un esperto di sicurezza e lascio ad altri queste problematiche. - ha detto poi a proposito delle stragi - Qui siamo davanti al tentativo di una presa egemonica sul mondo da parte di persone che utilizzano la religione. L’egemonia e il totalitarismo non sono un male delle religioni», piuttosto «sono virus anche delle religioni, da curare con la conoscenza reciproca e il dialogo. Qui a Firenze lo stiamo facendo - ha aggiunto ricordando il messaggio congiunto con l’imam Izzedin Elzir e il rabbino capo Joseph Levi diffuso sabato -. Per questo ringrazio l’imam e il rabbino. Penso che possiamo essere un esempio». Tornando alla presenza del Santo Padre «due elementi sono stati caratterizzanti: il primo è la gioia del Papa, per come è stato accolto. Dall’altra la gioia della gente per aver potuto incontrare il Papa come un padre».«Quello che mi ha colpito allo stadio - ha detto ancora Betori - è la compostezza della celebrazione, dopo i cori e i saluti. Per il silenzio che c’era sembrava davvero di essere in chiesa e non all’aperto». Compostezza che va di pari passo con la sobrietà della vita della chiesa locale: «Al di là dei richiami di fondo, non mi paiono necessari cambiamenti drastici. La curia in sé non ha patrimonio immobiliare, come l’Istituto per il sostentamento del clero, che affitta però a prezzi calmierati per mantenere appunto, come prescrive la legge, il clero, senza poter avere altre finalità».Betori ha poi ribadito che «la nostra gente si è aperta al Papa, oltre a quello che si poteva immaginare». Il Papa «lo ha sentito e ha ringraziato», ricevendo in dono i paramenti anche se avrebbe preferito, ha riferito scherzando l’arcivescovo, il Crocifisso trecentesco sull’altare, visto che il calice, di proprietà dell’Opera del Duomo, sarebbe dovuto per forza restare a Firenze. «La gente ha anche potuto apprezzare la totale dedizione del Santo Padre verso tutti, e soprattutto verso i poveri e i malati, senza un secondo per sé. Non so se sarei capace di reggere quel ritmo per più di un giorno».
Quanto la Chiesa fiorentina deve sentirsi scossa dal discorso del Papa? «Mi piacerebbe che venisse letto fino alle ultime battute. I richiami alla Chiesa italiana o fiorentina non sono schiaffi, ma esortazioni a fare passi ulteriori». Betori ha poi sottolineato nel messaggio papale, «l’esortazione a innovare, poi ripresa anche dal cardinal Bagnasco, nei processi di condivisione. La Chiesa che si rimette sempre in discussione davanti all’emergenza che viene dalla società. Nel metodo abbiamo preso sul serio quello che il Papa ci ha chiesto, ovvero la sinodalità, ovvero il coinvolgimento di tutti. La mia convinzione è che le vere riforme non sono di metodo, ma di cuore». Per Betori, «questa condivisione dovrà continuare e dovremo intensificarla anche a livello diocesano. Non in un sinodo, ma nella visita pastorale che sto portando avanti». Il cardinale ha sottolineato che «mettere il Papa a inizio convegno era voluto, perché non volevamo che fosse la ciliegina sulla torta, ma vedere il Papa come uno dei convegnisti con un ruolo un po’ diverso rispetto agli altri delegati. Diciamo che è stato il capodelegazione di Roma».