Firenze, 25 dicembre 2013 - «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14): la nostra fede, quest’oggi, deve fare i conti con questa ardita affermazione. Non possiamo stare qui, partecipare a questa celebrazione senza domandarci se è vero per noi che duemila anni fa a Betlemme una giovane di nome Maria ha dato alla luce non un qualsiasi uomo – magari un grande uomo, di quelli che affascinano per il loro pensiero e per la singolarità dei loro gesti e segnano la storia –, ma lo stesso Figlio di Dio, la sua Parola eterna fatta carne, e con il suo sposo Giuseppe gli ha dato nome Gesù. E dobbiamo anche chiederci se siamo davvero convinti che quella presenza divina non è riducibile a un mito fascinoso, a un’idea interessante, ma una vera carne umana, uno di noi: Dio e uomo che si incontrano nella singolarità di una persona, che viene ad abitare la nostra storia e fa presente in essa il mistero dell’Assoluto.
Sfuggire a questo confronto significa cogliere solo le dimensioni esteriori del Natale e quindi non raggiungere il suo significato proprio. Non sono soltanto le seduzioni consumistiche a ostacolarci in questo compito di ristabilimento dell’autenticità del Natale; lo sono anche certe opacità del vissuto religioso, che ne sfuggono il fondamentale snodo storico e riducono la fede a un moralismo, percepito come più o meno pesante, o a un’appartenenza rassicurante. Non c’è invece fede cristiana se non a partire dal riconoscimento dell’irruzione di Dio nella storia degli uomini. E tutto questo non come un astratto asserto ideologico, ma come un fatto concreto, storicamente determinato, nello spazio e nel tempo, un pezzo di storia umana.
Affermazioni queste difficili da pronunciare nei tempi che viviamo, spesso dominati dal desiderio di cancellare Dio dall’orizzonte della vicenda personale e storica, in quanto visto come un’inutile ipotesi nella ricerca della spiegazione del reale e un pericoloso limite posto alla libertà. Si comprende bene come da tali prospettive possano scaturire la scomparsa del riferimento a Gesù nei canti natalizi o la sparizione dello stesso termine Natale dai biglietti degli auguri inviati per delle feste di cui si tace così l’origine e il motivo. Possono sembrare fatti trascurabili, ma in essi si rivela un’incapacità a reggere l’urto dell’incrocio tra culture, popoli e religioni. Questo non si affronta invece negando le identità ma, al contrario, favorendone al massimo la reciproca conoscenza, fornendo a tutti l’alfabeto che permette di girare nelle nostre città e visitare i nostri musei consapevoli delle immagini e degli eventi che li abitano. Pensare che una cultura condivisa possa nascere dall’oscuramento dei fatti, è negare le conquiste più grandi della nostra civiltà, una perdita secca di identità e di valore.
Ma l’oscuramento o l’esclusione di Dio non tocca solo le relazioni sociali: lo si riscontra anche in un certo modo di pensare la ricerca umana, in cui un pericoloso scientismo vorrebbe opporre i percorsi della scienza a quelli della fede, quasi che la ragione debba per forza costringersi entro i confini dei dati sensibili e, a sua volta, la fede sia un parlare senza riferimenti oggettivi. Ma se le tecniche sono strumenti utili e rispondere ai bisogni contingenti dell’uomo, nessuna di esse è però capace di dare soluzione ai problemi ultimi, massimamente il problema della morte. E così pure le scienze, se riescono a descrivere le strutture che reggono le modalità di essere del mondo, non sono però in grado di dire alcunché circa il suo fondamento, il suo significato, il suo fine. L’aspirazione all’Assoluto riemerge sempre nel cuore dell’uomo, chiedendo di andare oltre ogni risposta scientifica circa l’assetto del mondo. L’oltre di Dio non annulla il di qua dell’uomo, ma questo attende in quello il suo compimento.
Ancora, la cultura che vuole orientare i comportamenti privati e pubblici nel nostro mondo tende ad eliminare Dio dal fondamento delle scelte e quindi la stessa distinzione tra bene e male. Bene sarebbe tutto ciò che mi è possibile e mi attrae; male sarebbe ciò che non posso raggiungere e che mi ripugna. Non ci sarebbe, dunque, nessun riferimento oggettivo per il nostro agire, ma tutto verrebbe lasciato alla nostra opzione. Cresce la confusione tra libertà e arbitrio. Sfugge ormai ai più che la libertà è là dove ciascuno è in grado di realizzare se stesso secondo un progetto di verità e quindi di autenticità della propria vita. Senza la scoperta della verità su se stessi non può esserci vera libertà. È Dio che garantisce la libertà, essendo lui a dare fondamento di verità al mondo ed essendo lui a garantire la possibilità all’uomo di rigenerarsi per fare il bene.
Tutte e tre queste possibili conflitti tra uomo e Dio trovano la loro risposta nel Natale, in quanto evento in cui si realizza il ricongiungimento tra Dio e l’uomo e quindi lo svelamento del vero volto di Dio e dell’uomo.
Nel Natale si manifesta a noi Dio come amore pieno di misericordia. Il suo donarsi all’umanità è infatti una risposta di misericordia al suo rifiuto. A un’umanità chiusa nelle sue tenebre, Dio risponde con la luce del volto di Cristo, in cui risplende la rivelazione dell’amore di un Dio che non si rassegna al rifiuto dell’uomo, ma vuole colmarne il distacco facendosi a lui vicino, diventando anch’egli uomo. Questo volto d’amore di Dio prende le fattezze della tenerezza e del perdono e, al tempo stesso, quelle dell’umiltà e della povertà, così da poter essere raggiunto solo dando spazio nel nostro cuore alla tenerezza e alla misericordia e facendosi prossimi a tutte le situazioni di fragilità e di povertà attorno a noi, vicine e lontane. Il volto di Dio è il volto tenero di un bambino, ma anche il volto bisognoso di un povero. L’attenzione alle antiche e nuove povertà, ai poveri, è parte integrante dell’esperienza religiosa del Natale. Ne scaturisce un appello a far sì che tanto nelle decisioni di coloro che hanno responsabilità pubbliche quanto nei gesti personali di ciascuno si dia sempre il primato ai poveri e alle loro necessità, di cibo, di abitazione, di accoglienza, di riconoscimento della loro dignità di persone.
E nel momento in cui Dio si svela facendosi uno di noi, egli svela noi a noi stessi, facendo risplendere la dignità racchiusa in ogni uomo e in ogni donna, un’umanità che egli non ha disdegnato di assumere. Se Dio si è fatto uomo, significa che l’uomo è dotato di un valore che lo rende unico nel mondo. Una dignità da riconoscere, rifiutando ogni ambiguo naturalismo. Una dignità da affermare, riconoscendola ad ogni persona umana, qualsiasi sia la sua condizione di vita e la sua collocazione nella società, dal primo istante del concepimento fino al compimento naturale del percorso di una vita nel tempo. Una dignità che va circondata di cura nelle sofferenze e nei problemi che ogni esistenza umana attraversa, in modo che nessuno si senta solo in nessun momento della vita, ma preso in carico da uomini e donne che si riconoscono suoi fratelli e sorelle.
Sono esigenze alte quelle che il Natale impone alla fede, esigenze che vanno alla radice di essa, impraticabili se fossero affidate alle nostre sole risorse. Ma il Natale è anche annuncio che la generazione del figlio di Dio nel tempo è il preludio della rigenerazione a figli di Dio di tutti gli uomini che lo accolgo: «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suon nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).
Il Figlio di Dio, che Maria ha generato per noi, sia da noi accolto con gioia, perché possiamo essere rigenerati dal Padre alla sua vita. È il mio augurio a voi per questo Santo Natale".
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