Firenze, 14 gennaio 2017 - Mattia decise che tra tutto e niente, aveva vinto il niente. E niente sarebbe stato anche per Michela: coltellate disperate e rabbiose, ma anche sintomo di un disagio ignorato, taciuto o non ascoltato. A un anno esatto di distanza dall’omicidio-suicidio, costato la vita di Michela Noli, 31 anni, graziosa hostess di terra dell’aeroporto di Peretola, poi di suo marito Mattia Di Teodoro, il 33enne che si uccise dopo averla massacrata nell’auto parcheggiata in una zona isolata all’Isolotto, la famiglia della donna chiede che non si abbassino i riflettori.
Né quelli della magistratura – l’inchiesta è stata archiviata senza la responsabilità di alcuno –, né quelli della società civile, affinché quel dolore che loro provano, non colpisca altri. Tra le pieghe dell’indagine della procura di Firenze, è emerso infatti che Mattia, in passato, aveva avuto dei problemi. Lo riferirono i suoi genitori, a caldo, quando appresero l’irreparabile accaduto. Se quella patologia, anziché taciuta, fosse stata affrontata, la tragedia ci sarebbe stata lo stesso?
“Non abbiate paura a dire di aver bisogno di curare i problemi della mente, è normale, il cervello è un organo che fa parte del nostro corpo, abbattiamo insieme le barriere della vergogna”, dicono Massimiliano Noli e Paola Alberti alla vigilia dell’evento commemorativo che si svolgerà domani a Villa Vogel.
“Credo che sia giusto pretendere di sapere e che sia nostro diritto conoscere la problematica che si presenta a un soggetto portatore di una malattia psichica, sia questa cronicizzata, oppure manifesta solo in un certo momento particolare, per comprendere e per essere in grado di riconoscere le situazioni da allarme – dice l’avvocato Alessandra Matassini, che assieme alla collega Cristina Moschini rappresenta la famiglia Noli –. Ed accade per l’ignoranza su tema nel nostro Paese, ignoranza non solo dell’uomo comune, ma anche dei tecnici come medici, pm e giudici. Infatti, sono convinta che abbiamo diritto, anche, di poter trovare le giuste competenze negli operatori sanitari e disporre di adeguato e concreto supporto, per noi, per i nostri familiari e le persone che ci stanno vicine”.
Ma le due legali sono anche convinte che ci siano margini per indagare ancora, alla ricerca di responsabilità su chi poteva “fare qualcosa” prima di quella drammatica sequenza di coltellate. Di Teodoro stava passando un momento di difficoltà. La situazione aveva spinto Michela a interrompere il rapporto. Il marito era in cura da specialisti. Quel 15 maggio, sin dal mattino, aveva manifestato segnali preoccupanti: prima al padre, che allerta un amico, poi in chat, in cui descrisse, passo dopo passo, con inquietante lucidità, ciò che sarebbe successo poi la sera. L’ultimo incontro, il tranello in cui cadde Michela convinta che Mattia gli avrebbe riconsegnato le valigie con la sua roba. Invece no. “L’ho ammazzata, addio”, scrisse Di Teodoro all’amico in chat, prima di farla finita.