Firenze, 12 luglio 2013 - IL 30 OTTOBRE del 1713, nella Reggia di Pitti, consumato dalla epilessia e dalla sifilide, moriva il Gran Principe Ferdinando de’ Medici. Aveva appena cinquant’anni e non lasciava eredi. Le nozze con Violante Wittelsbach di Baviera erano risultate sterili. Del resto era ben nota e costantemente praticata, prima e dopo il matrimonio, la sua omosessualità. La morte del Gran Principe (le cancellerie italiane ed europee lo conoscevano con questo titolo perché era il primogenito del granduca Cosimo III e quindi il Delfino, l’erede designato al trono di Toscana) apparve a tutti come il “finis Florentiae”.
MORTO il Gran Principe, non c’era futuro per casa Medici. E infatti alla scomparsa nel 1737 di Giangastone secondogenito di Cosimo III, anche lui senza eredi, la corona toscana diventava pedina di scambio per Vienna e per Parigi, le potenze egemoni nell’Europa di allora. Le trattative diplomatiche si conclusero, come sappiamo, con l’affidamento del trono granducale alla dinastia lorenese. Tutto sommato si trattò della opzione migliore che, nella situazione data, la Toscana potesse aspettarsi. È innegabile tuttavia che con il Gran Principe si consumava l’ultima stagione di gloria culturale e artistica per Firenze e per la dinastia Medici che con la storia di Firenze si era identificata.
IL GRAN PRINCIPE fu intellettuale raffinato, amante della musica, del teatro, delle scienze, fu soprattutto collezionista inesausto, sagace e fortunato. Dobbiamo a lui se i musei della città ospitano capolavori assoluti come la “Madonna dal collo lungo” di Parmigianino, la Pala Dei del Rosso, la “Madonna del Baldacchino” di Raffaello, le “Conseguenze della guerra” di Rubens, insieme ad alcune delle opere più significative di Andrea del Sarto, di Annibale Carracci, di Lanfranco, di Cigoli, di Sebastiano Ricci, insieme alla superba collezione di “opere in piccolo”, costituita da ben 174 bozzetti.
La storia del Gran Principe può essere assunta ad emblema del destino di Firenze. Troppo colto e intelligente per non sapere che ormai Firenze e la Toscana erano “quantité négligeable” nel quadro economico e politico d’Italia e d’Europa, Ferdinando pensava (e lo ha dimostrato nella sua vita di collezionista e di promotore di cultura) che le arti figurative, la musica, il teatro erano chiamate ad essere le principali ragioni di prestigio e quindi di internazionale consenso per il suo casato ma anche per la città e per lo Stato.
A ben guardare ancora oggi è così. Anzi oggi è più che mai così. Se Firenze e la Toscana esistono agli occhi del mondo è perché il mondo riconosce a questa parte d’Italia uno storico primato di arte, di civiltà, di cultura. Il Gran Principe lo aveva capito e ha cercato di dimostrarlo proprio negli anni in cui declinavano, con lui, sia il nome dei Medici che l’autonomia politica di Firenze e della Toscana.
OGGI una grande mostra allestita all’interno degli Uffizi (fino al 3 Novembre) consegna agli studi ma anche al piacere del visitatore colto la vicenda umana e intellettuale di un uomo che ha amato le arti di un appassionato esclusivo amore. Il catalogo Giunti è la monografia sul Gran Principe e sulla sua epoca che fino ad oggi mancava. Lo ha curato Riccardo Spinelli grande specialista di arte fiorentina nell’età del Barocco. Ospita, fra gli altri, saggi di Marco Chiarini precursore degli studi sulla Firenze degli ultimi Medici con la non dimenticata mostra palatina nel 1974 e di Maria Letizia Strocchi alla quale dobbiamo ricerche fondamentali sul collezionismo del Gran Principe.
Una mostra come questa è oggettivamente difficile anche per chi è del mestiere. In normali condizioni di mercato sarebbe inconcepibile prima ancora che irrealizzabile. È possibile allestirla solo perché, per tutta la durata dell’esposizione, il biglietto degli Uffizi viene obbligatoriamente caricato di una quota aggiuntiva. La gente fa la coda per vedere Botticelli, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, totem dell’immaginario turistico universale, ed è costretta a vedersi anche il Gran Principe Ferdinando mecenate e collezionista. Brutalmente semplificando le cose stanno in questi termini. Si tratta di una forma di “prelievo forzoso” che è, a mio giudizio, provvidenziale. Perché così facendo il grande museo “macchina per soldi” (lo spiega bene Antonio Natali in introduzione al catalogo) diventa laboratorio e vetrina di ricerca e scuola per la storia dell’arte. Torna a svolgere cioè le funzioni per le quali è nato e che ha esercitato fino a ieri, prima che esplodesse il fenomeno del turismo culturale di massa.
I SOLDI prodotti da una biglietteria che “lavora” ogni anno quasi due milioni di visitatori servono anche ad esplorare persone e fatti della nostra storia incogniti o poco noti e ad insegnare il mestiere a quelli che saranno gli studiosi e i conservatori di domani.
Antonio Paolucci
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