di Giovanni Bogani

Firenze, 11 aprile 2014 - E’ IL REGISTA più importante della Palestina e del Medio Oriente. Hany Abu Assad, cinquantatré anni, è stato due volte candidato all’Oscar. La prima volta con “Paradise Now”; la seconda con “Omar”, il film che è stato proiettato in anteprima mercoledì scorso al cinema Odeon, in apertura del festival “Middle East Now”, dedicato alla migliore produzione cinematografica del Medio oriente sotto la direzione appassionata di Robert Ruta e Lisa Chiari. Lui, Hany Abu Assad, ne è l’ospite d’onore. A lui è dedicata una retrospettiva di cinque film.
 

Hany: il suo è un cinema straordinario, emotivo ma anche bello nelle immagini. Quale cinema costituisce la sua ispirazione?
«Molto cinema occidentale: anche ‘Gomorra’ di Matteo Garrone per la sua verità, così come i film dei fratelli Dardenne, quelli di ‘Rosetta’, e lo Steve McQueen di ‘Hunger’. Ma non nascondo che anche il cinema americano mi piace: quando ho pensato al titolo ‘Paradise Now’ avevo in mente ‘Apocalypse Now’ di Francis Ford Coppola».
 

E’ stato candidato all’Oscar insieme a Sorrentino. Vi siete parlati? Ha visto “La grande bellezza”?
«Sì, l’ho visto. Ho apprezzato molto la musica, gli aspetti formali, la fotografia… Ma ‘La grande bellezza’ è anche un film sul vuoto. Sul nulla. E a me piacciono più i film che raccontano qualcosa, piuttosto che i film sulla decadenza».
 

Pensa che in Palestina cambierà la situazione? Che l’occupazione israeliana finirà?
«Penso di sì. Tutte le cose cambiano, niente è per sempre. E questa situazione non è sostenibile ulteriormente. Sono ottimista per la situazione in Palestina. Però intendiamoci: il mio non è un cinema ‘politico’. Io racconto delle storie umane, non voglio dare impulso a una lotta politica. Voglio che i miei film rimangano nella storia del cinema, non sono un attivista. Ma per un palestinese ogni atto diventa politico, automaticamente».
 

Come lavora con i suoi attori?
«Mi piace molto lavorare con attori non troppo conosciuti: mi piace sorprendermi, e lavorare sulla loro ‘innocenza’. Mi piace scoprire la verità degli attori».
 

Lei vive in Danimarca e ha vissuto in Olanda, lontano dalla Palestina. Le è difficile stare lontano dalla sua terra?
«No, io sono un privilegiato. Posso andare e venire dalla Palestina quando voglio. E poi ho un’altra fortuna: il cinema è qualcosa che può circolare facilmente. Non è come altri ‘prodotti’, che devono essere trasportati fisicamente. Il cinema vive anche sul web, si diffonde dappertutto. Così, è come se io fossi contemporaneamente in Palestina e in tutto il mondo. Anche qui in Italia».