MAGNIFICAT
Quel giorno, all’una e tre quarti, il solito uovo s’era disposto troppo ordinatamente nella vaschetta del pranzo: il tuorlo si era spostato esattamente al centro del bianco, e a Sebastiano era passata la fame. Come spinto da un presentimento incalzante, l’impiegato si era diretto in anticipo sul sentiero verso la chiesa. Lo rassicurava poter salutare il consueto asfalto dissestato, in staffetta con il solito pietrisco sconnesso al limitare del poggio. Ma ecco, già la gramigna della chiesina diroccata reca ferite lineari mai viste prima, segni di liscissime travi metalliche trascinate a ridosso della sacrestia. Ovunque metri, grandangoli, compassi distesi su progetti di carta pulita.
All’interno delle rovine, poi, l’alto sole velato di quel marzo, filtrato dalle vetrate, tratteggiava griglie che incasellavano esattamente le panche scrostate, ciascuna con la sua luccicante targhetta commemorativa: Sebastiano non poté fare a meno di scorgerci uno dei suoi moduli catastali.
“Posso esserle utile?”, rimbombò dalla navata laterale; che strana l’eco di una voce qui dentro, pensò Sebastiano, e s’affrettò a rispondere, un po’ spaventato: “Chi è lei?”.
“Primo Massetto, della Massetto & figli, premiati restauratori dal 1946; mi terrebbe lo scaleo mentre salgo a scatta’ du’ foto all’organaccio?”.
“Fa prima a usa’ i gradini scavati lì dietro, vedrà: scosti lo straccio e stia attento al terzo, al settimo e all’ultimo, son tutti sbeccati”. Speriamo faccia presto: ha da suonare, l’impiegato, prima che trilli la sveglia dello smartphone, per richiamarlo al lavoro.
“Dio bello, fa presto Sua Eminenza a di’ ‘restaura’, ma di vi’ ci cavo forse un par di pedali e un registro. Con la stagione, manco della legna per il camino ci faccio”. Un sibilo, toc!, una bestemmia.
“Animale, è una chiesa questa! E soprattutto, quello è un organo!”: Sebastiano tratteneva a stento la voglia di seguire il sanpietrino che aveva lanciato, e battere Primo personalmente. Il restauratore, diviso tra il dolore alla tempia, la rabbia e la paura d’aver a che fare con uno squilibrato, si limitò a un “Ma c’a fai, sei scemo?”, e intanto ridiscendeva i gradini, coprendosi il viso con le mani. “Ma chi sei? O brodo, ‘un lo vedi che qui casca tutto a pezzi? Un’ ero nato io, che qui era già tutto morto! E fermo co’ ste pietre, perdiana!”.
“Brodo te, e cecato per davvero! Ti fa vede’ Sebastiano come funge tutto!”, e mangiati gli scalini a due e a tre, come capita, eccolo genuflettersi in direzione del fu altare, farsi il segno della croce e accomodarsi il logoro giacchino. Con una mano si ravviò i radi capelli, con l’altra selezionò uno dei pochi registri superstiti; dalla tasca posteriore dei pantaloni di velluto tirò fuori le “Sonate d’intavolatura” di Girolamo Cavazzoni. O meglio: la copertina era quella, ma gli spartiti all’interno erano tutti sovrascritti da notine sgangherate e diteggiature improbabili. Però suonava, aveva ragione Sebastiano.
“Senti robina! Tre canne son finite a fa’ i flautini alla scola de’ bimbi della mia sorella, un’altra c’ho sistemato la pompa della mi’ zia, che perdeva. Ma ‘un serve mica averci tutte le note, a modino, come in cattedrale!”
Primo era ormai incuriosito, il dolore passato, sicché prestò le orecchie a quei suoni: il MI alto sviava, il FA diesis una volta era FA, quella dopo è SOL, ma le dissonanze venivano presto rattoppate in un disegno successivo. La tonalità, insomma, cambiava continuamente prima che le note se ne accorgessero.
“Per stona’, stona”, giudicò Primo, “ma almeno l’orecchio non s’annoia a sentire la nota che già t’aspetti”.
Proseguiva, Sebastiano, e nelle pause tra un movimento e l’altro spiegava: “Hai voglia te a ripète gli stessi diti, dipende se l’organo vuol seguirti o no; ma io lo conosco bene, meglio della musica stessa, e l’acconcio a smozzichi”.
Quando anche l’ultima eco dello strano concertino ebbe lasciato le volte scalcagnate della chiesina abbandonata, il restauratore non trattenne due battiti di mani. Dopodiché, invitato l’organista a sedersi sul banco di terza fila, uno dei meno traballanti, gli chiese da quanto tempo visitava le rovine, pardon, la chiesa. E Sebastiano si confessò, come quando ci veniva da ragazzino, solo che stavolta non aveva da chieder perdono. Spiegò che gli piaceva star lì a improvvisare preghiere sconnesse, a stravolgere lo Cavazzoni che sennò non avrebbe sonato bene lissù; che, fuor di quello, se poteva esser franco con il Primo che gli pareva un brav’uomo e l’aveva applaudito, il mondo gli pareva troppo “a modino”. I moduli rifiniti, le stampe burocratiche, le marche da bollo con quei prezzi assurdi al centesimo, le fotocopie tutte uguali e le scrivanie del comune: “Mi par d’esse Packmanne, sa, quer giochino del computer… non posso mai voltammi di sguincio”.
Massetto Primo era padre di famiglia, quei vent’anni di più sull’impiegato che gli permettevano di interessarsi del suo caso come fosse proprio. Gli raccontò a sua volta brevemente della propria condizione, poi si scusò: il vescovo progettava di ricavare da quella chiesa una cappella nuova nuova da destinare alle cerimonie private di certi suoi amici importanti, Sebastiano, sa com’è… E suo compito precipuo era di sistemare l’organo, se possibile, altrimenti procurarne uno fresco per la bisogna. Tutto doveva funzionare alla perfezione.
Apriti, cielo! L’organista s’alzò, in fiamme, a menar pugni all’aria, in rispettosissimo silenzio; ogni volta che, nel suo incedere singhiozzante, gli capitava di passar di fronte al fu tabernacolo, faceva un inchino frettoloso ma sentito, e giù di nuovo calci alla polvere.
“Bono lì, per l’amor del cielo! ‘un è mica la fine der mondo!”. Ci provava, Primo, a calmare l’organista defraudato, ma nulla sembrava avere effetto. “Guarda, facciamo così. Parlerò col vescovo: quando tutto sarà pronto potrai venire a sona’ ogni volta che vuoi sull’organo nuovo, che lo Cavazzoni te lo sona come Dio comanda”. Ma Sebastiano, voltategli le spalle, se ne andò, non prima di aver lanciato un ultimo sguardo al suo organo mentre si segnava con l’acqua piovana raccolta nella vecchia acquasantiera.
“Avanti il C 23!”. Sebastiano non alzò nemmeno lo sguardo, mentre riordinava i documenti dell’ultimo utente servito.
“Toh, l’organista!” L’impiegato non poté evitare di alzare le mani davanti al viso, come a parare l’inaspettato colpo: due anni dopo, ecco ripiombargli davanti il carnefice della sua chiesa. Una frazione di secondo, poi tornò a vestire il contegno di sempre.
“Signor Massetto, buongiorno. Posso esserle utile?”
“Guarda, siamo lì col sindaco che si definisce gli ultimi dettagli del progetto che sai”, ammiccò con un mezzo sorriso Primo. “Ho appena suggerito che sia tu a effettuare l’ultimo sopralluogo prima della consacrazione. Vedrai che lavoro! La domenica delle palme, quest’anno, il vescovo la celebrerà in una chiesa nuova nuova, con tanto di organo fiammante”. Ammiccò di nuovo, calcando le ultime parole con una smorfia pronunciata.
Sebastiano cercò la forza di accettare l’annuncio lisciandosi le coste dei pantaloni.
Le scarpe scivolavano senza difficoltà sul viale pavimentato di fresco, e non si correva più il rischio di inciampare nell’ortica. Ogni forma di vita era stata confinata in pratiche aiuole multicolori. Il riflesso di due campane luccicanti gli ferì gli occhi rivolti alla salita. Trovare un pesante portone da spingere per entrare nella sua chiesa, gliela anticipò irriconoscibile.
Spaesato dopo soli pochi passi all’interno, l’impiegato del catasto inorridì a scorgere un nuovo strumento usurpatore al posto del suo vecchio organo. Ma era venuto per fare il suo lavoro. Appoggiata la cartellina sopra il marmo prezioso della nuova acquasantiera, ne tirò fuori il modulo X17 (“Sopralluogo pre-consacrazione”) che gli aveva lasciato Primo Massetto.
“Stato strutturale colonne navata centrale”, recitava la prima voce da spuntare. “Figuriamoci”, sospirò Sebastiano, e la precisa fattura dei pilastri sembrava confermarne lo sconforto. Tutto era perfetto, così diverso da prima.
Ma poi, l’occhio fu attratto dal capitello dell’ultima colonna di sinistra: le volute erano rivolte verso l’alto, a differenza di tutte le altre. Abbassando gli occhi per prendere nota dell’errore, Sebastiano si accorse di essere in piedi su una piastrella particolare: l’unico triangolo in un pavimento di regolarissimi scacchi bianchi e neri.
“Possibile che non se ne siano resi conto?”, si chiese l’impiegato. Stava iniziando a divertirsi, e si rimise al lavoro, deciso a rilevare tutte le imperfezioni che poteva. Per ognuna, scriveva una x soddisfatta sul modulo che doveva invece registrare le cose che funzionavano.
Un lampadario con una candela in più? Bene così, una bella x.
L’inginocchiatoio del confessionale con le gambe storte? Bello, x anche per te.
Come attratto da un invisibile presentimento, “Mi chiedo se…”, Sebastiano si lanciò verso la rampa nascosta che saliva all’organo. Scostata la tenda damascata che adesso proteggeva le scale, ecco i soliti gradini sconnessi al posto giusto e, più in alto, l’organo nuovo. Sebastiano si avvicinò con timore quasi reverenziale.
Sul leggio, uno spartito del Magnificat di Cavazzoni, edizione 2014. Ormai sicuro che la mano di Primo avesse salvato la sua chiesa, Sebastiano si genuflesse in direzione dell’altare nuovo e si accomodò il logoro giacchino. Con una mano si ravviò i radi capelli, con l’altra selezionò il suo registro preferito, e iniziò a suonare.
Elena Marchetti e Giovanni Pica
© Riproduzione riservata