AMELIA
La mia vita galleggiava sopra l’indifferenza, tra circostanze mondane, commediante tra commedianti. Per la mia famiglia ero la squilibrata da accondiscendere. Per mio marito una giovane, ricca e viziata opportunità.
Mal sopportavano l’aggressione di quel liquido scuro che allagava i miei vasi, le mie vene, le mie arterie. Il mio corpo si rattrappiva in un groviglio contratto per esplodere, qualche minuto dopo, in una risata incontrollata.
Un pomeriggio di luglio, per la prima volta, tanti occhi cominciarono a raccontarmi e molte bocche a rivelarmi, nel chiostro del convento, mentre attendevo il passare della canicola e mi strusciavo contro il muro.
Ero sacra e divina, traghettata da un ospedale a una prigione a una casa di correzione, ero alla deriva verso la tomba per gli “ospiti” sgraditi.
La mia follia inadeguata doveva trovare una collocazione.
Per un periodo la periferia di una città era stata una soluzione perfetta. Racchiusa tra alte mura, la mia anormalità doveva parere ben nascosta.
Il dottore si affannava inutilmente a cercare le risposte, credeva che indagando la natura e le leggi che la governano, forse, avrebbe potuto spogliarla di un inedito. Il dottore diceva che la mia anima era staccata da Dio che l’ha generata, diceva che avrebbe potuto tornarvi sottoponendomi a un percorso circolare.
Ma la mia esistenza è un consumarsi e un macerarsi in sé, lontana da Dio, lontana dall’aldilà. Mi chiedo se io sia un essere inteso come volontà di vivere e come azione per sopravvivere, senza preoccuparmi della causa prima. Il dottore non poteva inculcare in me alcuna educazione né disciplina.
Ripeteva l’esistenza di una gerarchia nel mondo umano, animale e vegetale ma non immaginava che la sua autorità non scalfisse affatto la mia fiducia. Raramente lo invitai a sorseggiare una presunta debolezza. Discuteva della mia mancata autonomia, indecisione tra un bagno freddo e una camicia di forza. La mia comunicazione con tutti gli occhi e tutte le bocche, che mi raccontavano verità diverse, procedeva ininterrotta.
Io sono una “res”, sostanza, essenza, forza che mi indirizza a essere quello che sono. Mi manifesto nell’intelligenza e nella demenza, nella sanità e nella malattia, nel bene e nel male.
La mia interdizione necessitava un ricovero coatto, maschio legame tra malattia mentale e pericolosità. Privata dei diritti civili e politici, iscritta su due registri, della procura e del tribunale:
Signor sindaco, signor pretore si trattò di scandalo, non ci fu mai pericolo reale!
Direttore riferisca in tribunale l’esito della cura, della custodia nell’interesse della mia infermità e della società, denunci la fine della coercizione! Perché sorvegliata dalla polizia semmai dimessa?
Vedo solo un’infinità di “res” che esplicano se stesse. Tento l’astrazione. Ma io non riesco a vivere come una “res” e a esplicare semplicemente me stessa per la cognizione del dolore e l’angoscia di fronte alla morte. L’immortalità è una fresca e ingenua cantilena:
Le bocche annunciano un nuovo messia,
gli occhi ammiccano.
Espierà la nostra immobilità,
spegnerà quei bagliori intermittenti.
Dicono che potrò indossare nuove vesti,
acconcerò la mia chioma.
Mai più udrò rintocco da morto.
Mi chiameranno Amelia.
Esulterò con tutte le bocche e tutti gli occhi.
Ma quel giorno io non ci sarò.
Stoppia
il mio corpo
croce anonima di un camposanto.
Francesca Bertuccelli
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