Anche il comandante ha abbandonato la nave

Forse
esisteva un modo migliore di spendere il tempo che non di fronte a un aggeggio elettronico connesso ad altri aggeggi elettronici. Forse vi era un modo diretto per vivere stati emozionali piuttosto che fruirne sottoforma  di sterili pacchetti preconfezionati da scaldare a microonde. Forse. I punti nevralgici del cervello deputati alla percezione e risposta a Paura, Ansia, Sessualità, Depressione, Amore, Affermazione, Disfatta..stimolati da sterili simulazioni stando con il culo comodo  su di una poltrona a guardare uno schermo sottile di ultima generazione. Stavo vivendo la vita di qualcun altro, anzi ancora peggio guardavo la vita creata a tavolino da una serie di scrittori falliti che prostituivano la loro mente per tirare avanti. Troppo comodo vivere cosi, non si rischia niente al massimo una emorroide per via della postura. Noia che si accumula, noia che cede e frana, noia che aggroviglia tutto e impone la passività.  Prima che fosse troppo tardi, prima di diventare un terreno arido incapace di concepire niente, dovevo fare qualcosa. Mi serviva un emozione pura, uno shock, un po’ come il fulmine che diede vita alla creatura di Frankenstein. Mi vennero in mente molte idee, ma una su tutte prese il sopravvento. Perché richiamava quel senso tra il nero-gotico e il romantico che le letture di E.A. Poe mi avevano instillato. L’unica certezza che avevo, il punto focale a cui aggrapparsi per rialzarsi e ripartire. Gli stati d’animo vissuti o trasmessi da parole scritte che trasudano reale emotività non volano via come pulviscolo, restano saldi ed ancorati come la roccia alla terra. Quel luogo mi consentiva di scavare nella corteccia, di trovare il filo guida per uscire dal labirinto. C’ero già stato tanto tempo prima, così per caso durante una scampagnata sui monti. Mi ero allontanato dal gruppo iniziando a girovagare per caso tra gli alberi finché non me la trovai davanti.

Ricordo cosa provai. Curiosità, fascino e timore reverenziale verso la decadenza che aveva colpito quella struttura e l’aveva fatta più bella di quanto lo fosse prima. Celata tra gli alberi, evasa dalla civiltà, sottratta al progresso. Dopo anni di visite da parte di  centinaia di persone meritava quella solitudine in cui si trovava, non un piede doveva varcare quella soglia tantomeno il mio, ma era arrivato il momento di farlo. Mentre mi recavo lì scorreva una fragile eccitazione sulla pelle come debole elettricità statica su un pullover. Il sole si abbassava lentamente dietro i picchi montuosi, l’arancione si mescolava all’azzurro per dare una tinta violacea che contornava le cime degli alberi che si facevano sempre più alte e sempre più fitte. Percepivo indistintamente l’incedere dei miei passi sulle foglie secche, tutto era rumorosamente silenzioso mentre il canto delle civette chiamava il crepuscolo. Il mio cuore batteva tranquillo come se fossi seduto sul divano di casa mia e tale rimase anche di fronte alla croce arrugginita che svettava nella penombra sopra l’apice della facciata. Il portone di legno era quasi completamente marcio, solo le stringhe di ferro gli consentivano di rimanere in piedi. Nell’aprirlo il grosso battiporta di ottone mi rimase in mano, il cigolio dei battenti fu cosi forte da creare uno strano rumore all’interno. Dalle vetrate colorate già quasi in frantumi schizzò fuori impaurito un stormo di corvi, una colonna nera e infinita che pestava e scalpitava. A miei piedi vi erano frantumi di vetro e una decina di corvi feriti con le ali rotte che tentavano di spiccare il volo inutilmente, sbattevano a terra continuamente come dei giocattoli a carica a cui si era inceppato il meccanismo. Non mi piaceva quell’immagine, entrai. Lì dentro era come se fosse esplosa una bomba, il pavimento era quasi completamente divelto, in alcuni punti della navata era possibile scorgere  delle piccole cripte in cui alloggiavano dei sepolcri. Alcune panche deputate ad accogliere i fedeli erano sbriciolate dal tempo lasciando una chiazza marrone tra la polvere, altre erano cappottate per terra, tra la luce e il buio, come delle scale per far uscire i defunti dalle tombe. Non era facile stare in piedi camminando tra quei detriti, feci non poca fatica per evitare di cascare negli alloggi dei silenziosi abitanti di quella chiesa. Era possibile vederli nella penombra, alcuni stesi ed altri seduti, vestiti di tutto punto avvolti dalle ragnatele. Sguardi vuoti avevo intorno a me, mi riconobbi in quella posizione e in quegli occhi, dentro di me sentivo pace e serenità come in comunione con la solitudine di quei resti. Forse non c’era più scampo, forse ormai questo era il mio posto, seduto accanto a loro in pace con i sensi, inanimato come la pietra. Forse non era il fulmine di Frankenstein quello di cui avevo bisogno ma totalmente l’opposto. Distolsi i pensieri e cercai di concentrarmi nell’osservazione. Al disopra dell’altare c’era un gigantesco soppalco così grande da essere quasi tutt’uno con la volta di marmo. Nel mezzo di questo si trovava una grande struttura nera che non riuscii subito a identificare, ma guardando poco dietro capii che era un organo, vidi le canne di ferro sistemate in due distinte file verticali che si allungavano quasi fino a circondare un grande crocifisso di marmo scuro, più che circondare ne facevano quasi da sfondo. Poco dietro l’altare vi era una porta che forse portava su, saltai da una trave all’altra e poi sugli scaloni di marmo bianco, passai oltre l’altare e imboccai l’entrata. Una piccola serie di scalini molto stretti si distribuiva su due file opposte, i piedi a malapena entravano e la pendenza costringeva a reggersi con entrambe le mani al muro. L’intonaco si sgretolava al mio tocco, i gradini di legno si spezzavano sotto al mio peso, le ragnatele si sfasciavano sulla mia testa. La mia presenza stava corrodendo qualsiasi cosa stessi toccando lasciando dietro il nulla. Percossi un braccio contro l’altro per togliere la polvere tossendo all’improvviso, il rumore echeggiò più forte perché la volta fece da cassa di risonanza, capì perché avevano messo proprio lì quell’organo.

Era meraviglioso con i suoi tasti bianchi e neri, le tante levette ai lati e i piedi in basso. Per via della posizione, così alta sopra ogni cosa che guardava dritto verso l’ingresso, più che uno strumento musicale sembrava un ponte di comando di una nave. Dove il comandante guarda l’orizzonte e tiene la rotta mantenendo saldo il timone tra le mani, fiuta la tempesta e decide se evitarla o affrontarla. Tanti erano stati i passeggeri, chissà per quanti viaggi e chissà per quale destinazione, salvezza o perdizione. Poi la tempesta, doveva esser stata così forte da spazzare via tutto e tutti, prenderli ad uno ad uno e scaraventare la nave via verso la terra ferma, ad arenarsi e a consumarsi nelle onde. Oppure un ammutinamento, voci che si accavallano una più grossa dell’altra, mani che si stringono al buio e mani che si alzano dietro spalle ignare, l’avidità che si maschera con la fede. In ogni caso ora era qui. Vuota. Deserta, anche il  comandante aveva abbandonato la nave. Rimasi ancora un po’ a giocherellare con i tasti senza che alcun suono ne venisse fuori. Guardandomi intorno realizzai che avevo fatto una bella cazzata a venirci, non avevo raggiunto lo shock che mi aspettavo, anzi ero rimasto passivo di fronte a tutto questo come davanti a uno schermo di vetro, solo un inoperosa introspezione. Cuore piatto di una vita piatta. Tornai sui miei passi lasciandomi alle spalle l’ingresso della chiesa infilandomi nella boscaglia. Ormai era quasi buio, si alzò una lieve brezza nell’aria si poteva sentire odore di frenesia, uccelli si spostavano da una cima all’altra ed altri ancora si raggruppavano in stromi schizzando via nel cielo. La brezza diventò vento, crebbe di intensità fino a trasformasi in folate sempre più dure trascinando grandi nuvole nere all’orizzonte.
DO.
D0 SI.
D0 SI LA DO – non potevo crederci.
D0 SI LA DO RE SI DO LA - sentì l’organo suonare.
LA RE DO SI LA DO SI DO - il mio cuore si mise a battere come non lo faceva da anni.

Giorgio Filippis