Madeleine
Dopo i classici convenevoli, ovvero caffè, sigaretta, quattro chiacchiere sulla sera precedente e discutendo della progettazione del lavoro della giornata, mentre ci sedevamo per iniziare le attività, con il secondo caffè, uno solo non sarebbe stato sufficiente per essere al pieno delle potenzialità, si accorse che qualcosa in me non andava.
Effettivamente quella mattina non ero allegro come al solito; ero nella classica situazione "mi manca qualcosa dentro", depresso forse è eccessivo, insoddisfatto, invece, è riduttivo.
Quasi imbarazzata, mi chiese: «C'è qualcosa che ti preoccupa?»
Avete presente il vaso di Pandora? Bene, in quel momento la mia collega, con cui collaboravo da circa un anno e con cui avevo condiviso diverse trasferte in giro per il Paese, ma di cui sapevo ben poco e altrettanto lei di me, aveva aperto il mio "personalissimo" vaso di Pandora.
«Si. Mi preoccupa l'egoismo generale delle persone. Tutti pensano che io sia sempre sorridente e cordiale, che tutto vada per il verso giusto, che riesca a fare tutto senza problemi, che l'aiutare gli altri per me sia quasi un dovere e che quindi sia sempre disponibile in qualsiasi momento... Anche io ho i miei pensieri, ma sembra quasi che nessuno se ne preoccupi!»
«Tu ti sei mai fermata un secondo a chiederti cosa io possa pensare? Le emozioni che io provo? I miei dubbi, i miei sogni, le cose che mi rendono felice e quant'altro possa passarmi per la testa? Credo proprio di no.»
«Tutti cercano dalle altre persone un sostegno, una persona che sia disponibile ad aiutarci, anche solo ad ascoltarci nei momenti di difficoltà... Ma ci chiediamo mai cosa pensi veramente quella persona? Ci accorgiamo che anche quella persona, forse, in alcuni momenti della propria vita ha bisogno delle stesse attenzioni?»
Continuò ad ascoltarmi senza proferire parola, tamburellava semplicemente col cucchiaino del caffè, in un'atmosfera quasi surreale e non riuscivo a capire cosa potesse pensare ascoltandomi.
«Termino le mie giornate asciutto, perdo tutte le mie energie positive, cerco sempre di strappare un sorriso alle altre persone, di rincuorarle nei momenti di difficoltà. Ovviamente non lo faccio per ricevere gratificazioni, le medaglie penso che ben si addicano unicamente in ambito militare o arrivista, non nella tipologia di vita che io considero ideale, ma mi piacerebbe che un po' delle cose date ogni tanto tornassero indietro.»
«Non in senso materiale, però. Credo tu abbia ormai capito in quale modo valorizzo le cose. Da quanto tempo ci conosciamo e lavoriamo insieme? Ti sei mai chiesta come io stia realmente? Ti sei mai chiesta cosa io pensi la mattina quando mi alzo, oppure quando prendiamo un caffè o si pranza insieme? Ti sei mai chiesta cosa io provi la sera quando mi metto a letto?»
«Queste domande io me le pongo sempre nel riguardo degli altri. Sarò sensibile o stupido, ma trovo normale preoccuparmi delle persone che ho accanto nella quotidianità.
Ogni volta che facciamo qualcosa insieme, io mi preoccupo di te.
Ogni volta che parliamo, io rimango ad ascoltarti.
Ogni volta che hai un problema, io cerco di supportarti.
Ti sei mai accorta di questo, o semplicemente davi tutto per scontato?»
«Ecco, mi piacerebbe che ogni tanto qualcuno si comportasse allo stesso modo nei miei confronti. Ma fai attenzione, questo discorso non lo prendere come personale: espandilo a tutti i rapporti che abbiamo nella quotidianità. Sai come vivremmo tutti nel migliore dei modi? Sembra quasi che far sorridere, essere cordiale con gli altri sia sinonimo di stupidità, e io ne soffro. Io lo trovo normale un qualsiasi gesto di cortesia, e rimango stupito dello stupirsi, scusa il gioco di parole, delle persone quando ricevono un gesto gentile. Anziché stupirsi, dovrebbero pensare di riproporlo nei confronti di qualcun altro. Ecco, questa sarebbe davvero una bella catena di sant'Antonio, altroché le stupidaggini che si trovano su internet o via email.»
Lei si mise a sorridere dopo aver tenuto tutto il tempo i suoi occhi incollati ai miei... Nel frattempo non aveva ancora bevuto un sorso e, imbarazzato, dissi:
«Scusami... ti sto facendo anche freddare tutto.» e con la mano indicai la tazza che teneva stretta.
La sua risposta fu un semplice: «Non importa, continua, continua a parlarmi.»
Ripresi quindi il mio discorso, che credevo stesse diventando asfissiante, ma ormai, con la sua prima domanda, aveva rotto la mia diga di pensieri e riflessioni, e forse era proprio quello di cui avevo bisogno.
«Dicevo, basterebbe che la cordialità si trasmettesse in maniera virale. Non credi che si vivrebbe tutti in un mondo migliore?»
Stavo cercando di trasformare il mio monologo in un dialogo. Una cosa che non mi era certo mai mancata è la parlantina, in misura uguale al saper ascoltare gli altri. Miscelare il tutto era invece un'arte molto difficile. Ma mi era sempre piaciuto riuscir a far partecipare i miei interlocutori ai miei monologhi strampalati: trascinarli nei miei pensieri era una cosa che reputavo bellissima.
Uno scontato "si" fu la sua risposta alla mia domanda, ma niente di più: sembrava quasi ipnotizzata da tutto ciò che avevo detto in precedenza, forse stordita. Ma io continuai:
«L'essere affabile non credo che sia qualcosa di cui vergognarsi: diversamente potrei proporre un bel tatuaggio -stile "La lettera scarlatta", hai presente?- la lettera sarebbe anche la stessa, una bella A maiuscola sul petto ad indicare l'essere affabile... magari mi starebbe anche bene».
Sorrise nuovamente, questa volta in maniera più vistosa:
«Magari un altro soggetto tatuato ti starebbe meglio!».
Sorrisi anche io: era riuscita a rallegrarmi come spesso capitava durante le nostre chiacchierate, anche se quella mattina credevo fosse impossibile. Nel mentre si era alzata per finire il caffè ed accendersi una sigaretta, ma, nel risedersi, questa volta si avvicino un po' più a me.
«Beh, dovessi tatuarmi qualcos'altro eviterei una lettera.» dissi. E arrivammo al terzo sorriso strappato. Al ché le dissi:
«Hai visto? Anche parlandoti dei miei problemi, dei miei pensieri, delle mie fobie o di qualsiasi altre cose riesco sempre a strapparti un sorriso. Pensa che questo lo faccio tutti i giorni con tutte le persone. Sarebbe bello anche il viceversa...»
«Ma prima parlavi» mi interruppe «delle tue sere quando vai a letto. Come ti senti quando vai a dormire?»
«Ricordi la mostra fotografica che visitammo a Pisa di cui scrivemmo l'articolo insieme, a quattro mani, andammo avanti tutta la notte? Bene, la sera, prima di andare a letto il mio cuore lo vedo ben rappresentato da "Madeleine". Ricordi la foto?»
«Certo che ricordo la foto, una stanza decadente, abbandonata...»
«Ecco!» la interruppi subito «la sera il mio cuore è così: una stanza cadente, decadente, dove in tanti sono passati ma nulla hanno lasciato. Questo è ciò che mi rimane dalla mia empatia, il nulla o quasi.»
In quel momento abbassò gli occhi: mi aspettavo una semplicissima frase di risposta, per controbattere al mio discorso. Invece, molto semplicemente, si avvicinò e mi baciò.
Un bacio, un bacio come risposta... E io, proprio io, rimasi senza argomenti. Mai, in passato, un mio interlocutore proferì parole più piacevoli.
Marco Fogu
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