La più splendida realtà.
Orvieto, venerdì 1 dicembre 2006
La Ford Fiesta grigio metallizzata era parcheggiata accanto al marciapiede lungo il viale alberato che costeggiava il cortile della scuola. Una leggera, fredda brezza sfiorava i rami dei pini, accompagnata dal suono della campanella e dal vociare allegro dei bambini mentre uscivano.
Mi accinsi al cancello, osservando Tommaso e Sabrina avanzare tra i loro compagni nel ticchettio della ghiaia, il tempo di baciarli entrambi, prendere gli zainetti e avviarmi con loro, mano nella mano, verso l’auto, dove ci attendeva mio marito. Quel giorno, avrebbero desinato a casa nostra.
– Com’è andata la scuola, oggi? – domandai loro, mentre tornavamo.
– Bene, nonna. – mi rispose Tommaso, con un sorriso – Ho dipinto una casetta su una collina e la maestra è stata contenta. –
– Bravo, il mio piccolo artista. – gli risposi accarezzandogli la guancia, dopo essermi girata dal sedile anteriore. – E tu, Sabrina? –
– Bene anch’io. La maestra mi ha messo Bravissima a una poesia sull’autunno. –
– Ma che campioni, hai sentito Pierluigi? – esclamai felice, rivolta a mio marito, che annuì con un sorriso, concentrato sulla guida. – Bravi, davvero molto bravi, chissà anche mamma e papà come saranno soddisfatti! –
– Cosa c’è per pranzo, nonna? – mi domandò Sabrina.
– Spaghetti, amore mio e dopo pollo arrosto come piace a voi, contenti? – risposi loro.
– Sì! – esclamarono in coro.
Giunti a casa, sistemammo la spesa che avevamo fatto prima di andare a prendere i bambini, insieme a qualche pallina e decorazione natalizia, apparecchiammo la tavola del tinello e ci apprestammo a preparare il pranzo, mentre Tommaso e Sabrina si mettevano in ciabatte.
Intenta a scolare la pasta in mezzo a una nuvola di vapore, chiamando – Bambini, è pronto! – – Arriviamo nonna! – risposero dalla camera, a un certo punto, squillò il telefono. Una mia vecchia amica.
– Oh, ciao Greta, come stai? –
Dall’altra parte del capo avvertii un tono concitato e che allo stesso tempo vibrava d’inquietudine.
– Marisa, noi abbastanza bene, grazie. Ma purtroppo per ciò che sto per dirti, questo non è un buon momento. –
– Perché che è successo? – le domandai.
– Riguarda Umberto, non ce l’ha fatta! Mi dispiace tantissimo! –
Non l’avesse mai detto!
– Come? Umberto? Non è possibile! – “Ma perché Umberto?” pensai dentro di me.
– Ieri sera, poco dopo le nove. Mi ha avvisato suo figlio. Il tumore era in stadio avanzato e gli ultimi tempi non sono stati che più d’una sofferenza, prima delle palliative. –
No! Non poteva essere vero. Non ci potevo credere! All’improvviso era come se fossi crollata in un incubo da cui non avevo la minima idea di come poter uscire.
– Il funerale ci sarà domani nel pomeriggio per le tre. Ci vediamo lì, se verrete. Tra poco devo ritornare all’edicola. Salutami Pierluigi. Ciao Marisa, un bacio. –
Dopo aver acconsentito e ricambiato i miei saluti alla sua famiglia, riagganciai, sentendomi stringere il cuore e come se mi stessero mancando le gambe. Lo sguardo perso nel vuoto che quasi non mi ero neppure accorta che i bambini erano arrivati in tinello in attesa del pranzo.
– Nonna chi era al telefono? – mi chiese Sabrina. Sentivo le lacrime tremarmi sulle ciglia, sull’orlo di scendere, ma cercavo di sforzarmi al meglio per trattenerle.
– Una signora, una mia vecchia amica. C’è stato un lutto. –
– Perché, chi è morto? – intervenne Tommaso.
– Un cliente che andava all’edicola da Greta, questa mia amica. Era un maestro elementare. – risposi loro. – Ma adesso sediamoci a tavola, topolini, altrimenti la pasta si raffredda. – Non volevo che mi vedessero piangere e non volevo nemmeno vederli dispiaciuti nel guardarmi così.
Pranzammo in religioso silenzio. Anche gli spaghetti ricoperti di quel sugo fresco che avevo preparato la sera precedente, parevano suscitami uno strano senso, quasi da farmi perdere completamente l’appetito, mentre i miei pensieri divagavano. Ogni tanto io e mio marito ci scambiavamo qualche occhiata d’intesa, mentre pescavamo nei nostri piatti, arrotolando gli spaghetti nelle forchette.
Come potevo rassegnarmi all’idea che l’avevo perduto? Che avevo appena perso qualcuno che una volta era entrato improvvisamente nella mia vita? Qualcuno che aveva in parte scombussolato la mia esistenza e acceso in me quell’emozione che ormai da tempo credevo svanita, ma che d’un colpo si era di nuovo manifestata?
La nostalgia di altri tempi sembrava rifarsi più viva che mai: ecco che mi riaffiorava, come in una moviola a effetto rallenty, una casa ai margini della strada di un paese provinciale, un piccolo cinema nei pressi della piazza, lo swing dalla radio, il vento dell’estate, un bacio nel bel mezzo della sera…
Tutto si perdeva negli antri più bui della mia mente.
Terminato il pranzo, mi alzai subito per sparecchiare, aiutata da mio marito, mentre i bambini si erano spostati nel salotto adiacente al tinello. Intenta a lavare i piatti e le stoviglie, dopo avermi passato la tazzina del caffè nel lavello, Pierluigi, con l’impeto di un uomo che ama la propria moglie da oltre trent’anni, mi passò un braccio intorno alla spalla e mi abbracciò.
– Una di quelle rare persone su cui si poteva sempre contare. – mi disse, ripensando a Umberto. Annuii con un cenno del capo. – Lui aveva mille ragioni di ritenersi fortunato ad aver avuto soprattutto un’amica come te, Marisa. – aggiunse, vedendo il velo di tristezza che ancora era acceso nei miei occhi.
– Nonna? – mi chiamò Sabrina, appena tornata in cucina. – Vieni dopo? – Poi, fissandomi: – Come mai sei triste? –
– Ma che dici, tesoro? Nonna non è triste. – risposi simulando un sorriso repentino.
– Finisco e vi raggiungo di là, amore. – E Sabrina ubbidì, tornando da suo fratello.
Infine, dopo aver dato un’ultima pulita all’acquaio, andai in veranda per stendere gli strofinacci. Aperta la finestra, avvertii un’aria ben più intensa rispetto a quella leggera brezza d’inizio dicembre di quando ero andata a prendere i bambini. Mi accarezzava il viso e muoveva sinuosamente i miei capelli.
L’idea di Umberto che da lassù avesse mandato quel vento, quasi come un richiamo per dirmi che era ancora lì accanto a me, mi confortò ancora di più e parve che in quel momento il mio cuore si sentisse più sollevato. Alzai gli occhi al cielo limpido, pensando che quella sera si sarebbe accesa una nuova stella e borbottai una preghiera.
Ma la tentazione di tornare in un luogo che non vedevo più da anni era assai troppo forte.
Quello stesso pomeriggio, dopo aver riaccompagnato Tommaso e Sabrina da mia figlia, mi diressi verso la casa dove un tempo abitava Umberto. Una volta imboccata la traversa da cui avrei potuto vedere il piccolo edificio di due piani sull’angolo, l’immagine che mi si presentò davanti fu quella di una palazzina completamente abbandonata. A quanto pare nessuno vi aveva più abitato, anche perché all’esterno non c’era nessun cartello di lavori di ristrutturazione, o di vendesi e, molto probabilmente, l’ultima famiglia che aveva abitato l’appartamento in seguito a Umberto si era poi trasferita altrove definitivamente.
Sicuramente spinta a voler ripercorrere di nuovo quegli spazi che ormai si ergevano soltanto a rievocare la memoria di una ragazza nel fiore dell’età, trovai l’entrata da una porta sul lato destro della palazzina, schivando due assi di legno sparse lì per lì e salii per le scale verso il secondo piano.
Raggiunsi la soglia, senza minimamente badare all’odore di polvere e muffa e al volare di qualche mosca ronzante sulle pareti scrostate. Non c’era più traccia di un solo mobile sparso in giro, l’unica cosa superstite che notai fu una poltrona situata al lato di una porta finestra ancora intatta di un piccolo terrazzo che dava sul paesaggio. Ed ecco che un rapido flashback, che mi separava da ormai mezzo secolo, mi prospettò quel salotto in cui Umberto ed io ballavamo ascoltando il Quartetto Cetra dalla radio.
Era il 1956. Io, giovane cameriera che assecondava suo padre nei suoi turni al bar. Lui, maestro elementare dall’aria timida e introversa. Mi aveva vista per la prima volta una sera mentre lavoravo con papà, assorta nel preparare un cappuccino. Stava seduto vicino agli altri clienti riuniti intorno al televisore e di tanto in tanto, si voltava per fissarmi. Un pomeriggio mi aspettò fuori dal bar per propormi di andare al cinema con lui. Avevo sedici anni e lui ventidue. Lusingata, accettai.
Come poter rimuovere Totò, Peppino e la... malafemmina, il primo film che vedemmo assieme? Tra risate e sentimentalismo, mano nella mano, il lembo del mio vestito lilla sfiorante i suoi pantaloni. Sulle note di quella che poi avrei coronato come la nostra canzone e lui, affettuosamente, soprannominarmi Dorian Gray, nel film, mia omonima:
Sognerai di me
Sognerò di te
E nel sogno mille stelle brilleranno su nel ciel
E tu mi guarderai
E poi mi bacerai...
Sognerò di te
Sognerai di me
Ma poi l'alba spunterà
Il buon dì ci sveglierà
E vivremo la più splendida realtà...
E vivremo la più splendida realtà.
Sì. Era cominciato tutto allora. Mi sentivo felice. E credevo che potesse succedere come in uno di quei film a lieto fine. Dentro di me ripetevo indefinitamente il mio cognome futuro che avvertivo così naturale: signora Marisa Loriano. Di colpo avevo capito che non poteva esserci nessun altro nella mia vita.
Quella splendida realtà che, se da lì a un anno mi avrebbe già reso cosciente che un imprevisto disegno del destino avrebbe dato il via a una serie di eventi che avrebbero ribaltato lo scenario, forse la felicità mi avrebbe reso meno sciocca di quanto fossi in grado di percepire allora. L’apice: il giorno della partenza di Umberto per Milano, dove l’avrebbe atteso la nuova cattedra; la promessa di scriverci e il nostro ultimo bacio prima che il suo treno partisse. Ciò che ci avrebbe riunito al suo ritorno una decina d’anni dopo, entrambi con le nostre rispettive fedi al dito e due figli ciascuno.
E nel rimuginare su quella nota canzone, uscii dalla palazzina e mi riavviai verso casa.
Marianna Miniati
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