Madeleine
Quella chaise longue non guarda più il cielo.
È la prima cosa che penso entrando in questa stanza, ignoro lo scrittoio macchiato di smalto e fisso lei. Cammino vicino alla libreria vuota e sopra i libri sul pavimento, senza rispetto alcuno, infastidita soltanto dal passo incerto a cui mi costringono.
Dopo otto anni torno in questa casa, un improbabile appartamento ricavato da una villa settecentesca in disfacimento, coi muri scrostati, i balconi in legno massello rosicchiati dal sole, coi topi che danzano sul controsoffitto in compagnia di chissà quale altra specie disgustosa.
Era così anche allora, mi ero appena sposata. Pensavo che sarebbe stato bellissimo quel parco per nulla curato, a guisa di giungla, imbiancato di neve.
Ogni cosa qui è forgiata dalla mancanza di te, anche se questa casa non ti ha visto mai. Manchi come all’appello del primo giorno di scuola, qui dentro nulla conosce il tuo viso. Manchi da quando ci sei, non sei una presenza che scompare, sei la mancanza assoluta che si è solidificata in tutte le cose: non c’è differenza tra un oggetto che hai potuto conoscere dalle mie mani o uno che non hai mai visto.
La chaise longue volta le spalle alla finestra, con quello schienale dritto sembra un bambino offeso.
Il giorno che l’ho vista in uno di quei negozi di fascia media l’ho scelta, anche se costava un po’ di più per via della manifattura artigianale e del misto seta di rivestimento; “ecco” precisò il commesso al momento di concludere la vendita “un divano così non è da uso quotidiano, è più un complemento d’arredo” .
L’ho eletta a immagine di me in una vita che volevo, col suo stile romantico, forse si dice country chic. Mi sono immaginata in un pomeriggio di inverno soleggiato, dopo una lunga camminata, a bearmi del calore soffuso e intenta a leggere, assaporando la mollezza del corpo.
L’ho messa vicina alla finestra, in una posizione che suscitava sempre la stessa domanda: “ma perché l’hai messa al rovescio?”. Non rispondevo mai, non rovinavo la poesia di quello sguardo al cielo da non dover spiegare.
Mi sembrava in attesa di qualcuno in quella posizione, paziente, una nobildonna che si concede il lusso della lentezza, elegante, sinuosa.
Oggi mi ricorda il servizio di porcellana inglese che mia madre aveva ereditato da mia nonna paterna. Non avevamo mai ospiti, ma quando capitava l’imprevisto di qualcuno dentro casa mia madre lo tirava fuori dalla vetrinetta. Guardava nervosamente l’orologio facendo il calcolo mentale di quanto ci avrebbe impiegato mio padre a tornare dal supermercato coi biscotti per poter finalmente offrire il the. Lui tornava sempre dopo troppo tempo, trafelato, investendo i malcapitati con una quantità esagerata di dolciumi e l’impietosa impressione che accogliesse un ospite per la prima volta.
Odoravano di polvere, di goffaggine e di difficoltà quelle tazze. Se solo ci avessi pensato non avrei mai scelto quella chaise longue.
Proprio non so come ha fatto a sembrarmi perfetta, così manierata per i miei modi bruschi. Non capisco il perché di quell’angolo panna e blu inchiostro, non capisco il perché di tutto questo freddo inglese, di questo romanticismo educato. Non capisco la luce calda piegata a fare da riflettore su quei colori di foschia e di velluto, la spudorata compostezza della carta da parati uguale alla tappezzeria.
Il blu è freddo, l’inglese è freddo.
Ma io no.
Ho confezionato un sarcofago di pasta di zucchero per la mia dolce morte. La confezione in cui ripormi dopo l’uso ed il travaglio usato, dotata di libri e quaderni per passare il tempo, ché la morte è lunga.
Una scenografia che ho chiamato vita.
Quando il tempo del matrimonio mi ha lasciato sola, quando la pace è diventata vuoto, lei era lì ad accogliermi come una madre vera, rifugio a cui il mio corpo immobile confessava l’assenza di forze, l’impossibilità di muovere un muscolo o un pensiero propositivo.
Avevo bisogno di lei e del cielo.
Della notte e il suo chiarore.
Riuscivo a dormire solo lì, respirando la luce fioca che arrivava dalla finestra, la luce che la notte tirava fuori da un lampione diventava l’ossigeno, buio e ossigeno per dare alla testa, per perdere i sensi.
La vita e la morte hanno danzato la loro quadriglia per quattro anni su quella seduta, e alla fine, tra il silenzio e il vuoto, ho scelto il silenzio.
Il tuo arrivo – pare improprio definire così quell’incontro fortuito - mi ha tolto quella luce.
Lo spazio immenso che mi separava da te aveva pur un inizio, ed era quella finestra.
Lo rinnegavo con tutte le forze.
È stato allora che ho spostato la chaise longue, per non ricordare quello spazio e te, ho deciso che non esistevi. Ho accettato il buio che hanno le stanze di notte.
L’ho messa dritta.
Il sonno lasciava in consegna al mattino il mio pianto, quella smorfia di supplica di chi è costretto a seguire il suo aguzzino: così seguivo la vita, e lei mi spingeva negli angoli a odorarti.
Il tuo odore buono che placa tempeste ha voluto mischiarsi col mio. L’ho sudato di notte e ha pervaso anche il mio giaciglio. Ti ho messo il naso vicino tutte le sere, tra il bianco e l’ inchiostro.
Mi sono chiesta divertita come potesse, chi mi stava attorno, non accorgersi che avevo cambiato odore da quando c’eri, forse le persone non annusano più, non serve.
Noi due come animali scampati ai pericoli peggiori abbiamo imparato a fiutare l‘aria e ciò che porta, il pericolo, la paura, lo schifo.
L’amore. Che ci ha impietriti come una belva feroce trovata all’improvviso davanti e noi siamo restati immobili come le bestie più deboli che sanno soccombere quando è ora.
E ora ripenso a dicembre, a quando ci siamo imbrattati come in un gioco ridente d’estate - pronti a sbranarci come tu divori gli hamburger: due morsi, ti sporchi, lo butti via e schifato ti pulisci - scoprendo il rosso, il colore, il calore, gli umori.
Racconti di amori. Che pure impilati non arrivano a sfiorare la vertigine nostra.
Non lo saprà nessuno, non esistono orecchie per ascoltare, capire, carpire, penetrare quello che sei tu dentro me.
Ma esistono gli occhi per vedere, e io ti guardo ridisegnare sulla mia carne l’amore che cerchi e la violenza che trovi, come ti viene.
Non sono felice né triste, né atterrita o redenta: semplicemente, come si fa con l’arte, guardo estasiata l’opera che compi. L’accettazione, l’essere vinti, l’essere umani, la sublimazione, il torbido morbo insaziabile. Il baratro senza speranza.
Da te lo accetto, accetto tutto, è l’ultimo gesto di chi sta per andare, il gesto solenne, più vero, di carne.
Il capriccio di un bambino. Il coraggio di vivere l’amore insieme a quel senso di fine che per natura non lasci mai andare, non per impossibilità o distanza. Lo custodisci come un tesoro prezioso e segreto, lo decifrerai a tempo debito. Disperare nell’amore è ancora il tuo modo di amare. Il tuo atto di fede.
L’abbiamo chiamata felicità, guardandoci sgomenti come se avessimo invece incontrato un dolore e insoddisfatti di quella definizione. Abbiamo fermato gli istanti, frammenti convulsi di un’ossessione, li abbiamo scoperti svelare una grazia che non era dovuta. Odiando la lentezza nel capire, ci siamo puniti con l’urgenza di chiamarlo per nome, come se a non farlo si potesse verificare un’immane tragedia, come se dovessimo chiamarlo a gran voce per non farlo andare via, per vedere se è vero, per non farlo confondere tra la folla, gli amori, l’umore grigio che appiana tutte le cose.
Ma non c’è un nome per noi, e tu in nome di cosa arrivi a smottare gli strati di solitudine e consuetudine che ho chiamato casa?
La mia chaise longue ha smesso di aspettare. L’attesa che finisce è spesso un voltarsi. Un andare, un ritorno, un nascondere il viso, un raggiungere di corsa.
La vengo a trovare con ciò che ho raccolto camminando per queste stanze vuote di me, in questi anni che non lasciano andare i pezzi di prima. Sorrido di quella vita come se fossi sua madre. Scosto il drappo incolore dell’abbandono: ogni oggetto è in rovina, intatta la mancanza di te.
Sa tutto di polvere e di tazze inglesi; mi avvio, sola, verso il mio posto di panna e di inchiostro, di foglie e cuscini, calpestando fogli che avevano importanza.
Mi siedo piano, ritrovo il mio abbraccio nello schienale offeso che ha voltato le spalle alla luce.
Chiudo gli occhi.
Sento il mio battito, salgono le lacrime immaginando che sia il battito di quello che c’era e che potrebbe rinascere, di quel divano che riprende vita riconoscendo la pressione del mio corpo, infine sorrido di questo pensiero infantile.
“Che ridi?” risuona nella stanza svuotata, nella mia mente affollata.
Apro gli occhi, ho solo creduto di sentirti, non ci sei. Scioccamente questo mi ferisce.
Una cosa sola so delle ferite una volta che vengono inferte: che pulsano, e da quel pulsare defluiscono la vita e la fine in versi opposti.
Io non ho voluto decidere la direzione, ho scelto l’amore accanto alla sua stessa fine. Te.
Maria Isabella Zuccalà
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