Pistoia, 25 marzo 2014 - Dal 6 marzo dorme in macchina con il figlio di quasi 6 anni. Dopo lo sfratto,
l’unica soluzione dignitosa per Cristiana Pacini, 38 anni pistoiese, è stata quella di appoggiarsi, di giorno, per lavarsi e mangiare, nell’appartamento inagibile del compagno (Maurizio D’Ulivo, padre del piccolo
anche lui disoccupato e sotto sfratto), e di notte, invece, chiudersi a chiave con il bimbo dentro la sua Renault Megan parcheggiata nella zona di via Bastione Mediceo pregando, ogni volta, di non ricevere brutte visite.

A presentare questa situazione disperata, difficile da concepire in una città come Pistoia, è l’Unione inquilini. Cristian Boeri e Alessandro Sibaldi  del sindacato, puntano il dito contro l’amministrazione comunale colpevole, secondo loro, di non mettere in campo le azioni giuste per aiutare le tante, tanssime famiglie che a causa della perdita di lavoro, si ritrovano senza una casa. «Il Comune ha convocato l’ultima commissione sul disagio abitativo prevista dalla normativa nazionale a settembre, quindi, molto tempo fa —dice Boeri—. Eppure, i casi come quelli di Cristiana aumentano di giorno in giorno. Perdere il lavoro e la casa significa perdere la propria dignità. Non si può che partire dal lavoro per ridare una speranza a queste persone».
 

«Se l’amministrazione non agisce in questa direzione insieme alle altre istituzionui coinvolte nel tavolo, non si risolverà l’emergenza abitativa e i casi di sfratto per morosità incolpevole continueranno a crescere ». «Tutta la giunta deve farsi carico di questa situazione così come tutto il consiglio comunale—aggiunge Sibaldi—. Bisogna trovare soluzioni concrete». Cristiana Pacini ha lavorato sempre fino al 2008, quando in concomitanza con la nascita del figlio, sua mamma è stata colpita da un ictus ed ha avuto bisogno di assistenza continua. Dopo la morte della madre, è riuscita ad ottenere un lavoro di qualche mese nell’azienda che gestisce le mense comunali.

Alla fine del contratto però nessun rinnovo. Ora, la donna, non vuole saperne di andare in comunità o nell’albergo popolare, vuole un tetto sicuro per il figlio che ha già avuto un’infanzia difficile a causa di problemi alla nascita. «Il bambino è nato con un edema cerebrale— racconta Cristiana piena di rabbia
—. Ora sta bene, ha dovuto fare una lunga terapia all’ospedale Meyer ed attualmente è seguito da una logopedista. Per me andare in una casa famiglia significa farlo entrare in contatto con situazioni di disagio che non farebbero bene alla sua crescita. Ho invece un personale rifiuto psicologico per l’albergo popolare.

Ho ancora una dignità —dice a occhi bassi, cercando di mantenere la calma davanti al bambino—e voglio ancora credere di farcela. Avere un alloggio per qualche mese non risolve la mia situazione, quello di cui ho bisogno è un tetto sicuro ma soprattutto un lavoro per ricostruire la mia vita e mantenere un domani anche la casa in cui vivrò. Sono ottava nelle graduatorie dell’emergenza abitativa, ho 15 punti su un totale di 17 eppure sono qui ad aspettare perchè i servizi sociali dicono di non avere più case. All’ufficio di collocamento
sono stata trattata come carne damacello — aggiunge indignata — , mi fanno fare corsi che alla fine non portano a nessun posto di lavoro. Non voglio più chiedere l’elemosina — conclude Cristiana frenando l’emozione —, voglio crescere il mio bambino dignitosamente e questo lo potrò fare soltanto con la certezza di uno stipendio».
 

Michela Monti