Sull'edizione di domenica 16 giugno il New York Times pubblica un racconto di Edoardo Nesi dal titolo «A cosa somiglia il color pervinca?».

Di seguito, la traduzione italiana e il link del testo originale inglese.

Sabato il Financial Times aveva recensito il volume Storia della Mia gente con cui Nesi aveva vinto il Premio Strega nel 2011.

http://opinionator.blogs.nytimes.com/2013/06/15/what-periwinkle-looked-like/

A cosa somiglia il color pervinca?

Quasi nove anni fa - il 7 settembre 2004 - ho venduto azienda tessile della mia famiglia, il Lanificio Temistocle e Omero Nesi & figli. Fondata nel 1920, è stata una delle migliaia di piccole imprese italiane spazzate via in primo luogo, dalla crescente ondata di globalizzazione e dalla conseguente serie di crolli finanziari. Producevamo tessuti di classe che vendevamo ai più celebri stilisti. Io avrei dovuto rappresentare la terza generazione di imprenditori della mia famiglia. Invece, non ci sono riuscito.

La mia è una sconfitta personale e familiare comune a tanti altri, in lungo e in largo per l'Italia.

Una serie di sconfitte che sta minando la stabilità stessa della nostra società, una società che si fonda su piccole e dinamiche imprese in grado di realizzare ottimi manufatti. Una società in cui la ricchezza era distribuita e non racchiusa nelle mani di pochi avidi padroni.

So bene che la globalizzazione ha favorito il riscatto di decine di milioni, forse centinaia di milioni di persone. Ho ascoltato grandi pensatori descrivere con toni elevati la globalizzazione. Ho sentito dire che la globalizzazione offre vantaggi per tutti i consumatori.

Lasciate però che racconti un'altra storia. La storia di consumatori che tornano a casa, ogni sera, e diventano persone, consumatori che non possono più consumare nessuna cosa, tranne forse le proprie vite. La storia vista dalla parte dei perdenti, di coloro che hanno costruito molto e nel giro di pochi anni sono stati lasciati indietro dalla storia.

La storia di quelli che schiumano rabbia e nostalgia per il passato.

Credevamo - ingenuiamente credevamo - che realizzare prodotti di finissima qualità ci avrebbe preservato dalla rovina. E allora racconto di come questa illusione si è man mano costruita.

Deve essere stato 1997 o nel 1998, uno degli ultimi anni in cui le piccole aziende tessili della provincia italiana, e le centinaia di migliaia di operai e artigiani che tenevano su quelle aziende spingevano a gonfie vele l'economia.

Ero a Prato, dove si avevano sede la nostra fabbrica e i nostri uffici.

Sergio Vari, il nostro mitico direttore, il direttore che raccontava di aver trasciorso un'intera estate negli anni '60 con i Led Zeppelin a Goa mi telefona da Milano. Per dire che dovevamo creare un colore speciale per un cliente molto, molto importante.

«E' pervinca, Edoardo - dice - e il cliente vuole questo colore in Cabora».

Cabora era il nome del nostro tessuto più fine per confezionare cappotti, un tessuto ad alta lucentezza composto da una miscela di lana superfine australiana, cashmere e angora.

«C'è solo un piccolo problema, però. Il colore viene da una fotografia».

«Da una fotografia?».

«Sì, e sto guardandola ora. Sembra che negli anni '80, a Londra, e una bella ragazza indossasse un bel soprabito pervinca. Il cliente dice che gli ricorda una scena di un film di Antonioni. E vuole assolutamente che noi ricreiamo quel cappotto, in quel colore ».

«E che cos'è il pervinca. A quale colore assomiglia, Sergio?», chiesi io, essendo daltonico.

«La pervinca è un fiore, Edoardo. Nel Medioevo si usava per i filtri d'amore... E' una bella tonalità di colore... sembra un cielo blu, con sentori di viola... e grigi ... E' davvero incantevole».

Vi risparmio quanto sia difficile prendere una lana australiana, cashmere e angora blend e tingerli di un colore speciale. E non vi dico la reazione dei nostri chimici alla richiesta di riprodurre un colore da una semplice fotografia. E' una sfida scoraggiante, ma il cliente è troppo importante per rinunciare. E' uno stilista molto noto e quello è il primo lavoro che ci propone. Dire no significherebbe chiudersi un'autostrada. Sergio mi dice il suo nome. io mi proecipito dai tecnici. Sorridono, dicono che non c'è modo di riprodurre un colore del genere per di più da una vecchia fotografia! E addirittura in lana, cashmere e angora blend! Impossibile!

Per convincerli, sfodero il nome del committente. Mi guardano, si guardano. Annuiscono. Dicono che ci proveranno. Intanto, arriva la fotografia. La ragazza è davvero bella ed è bello anche il colore del cappotto.

Ci vogliono due settimane per mettere a punto il colore, I tecnici armeggiano a otto pezze di stoffa, risparmiati dal lavoro ordinario. Alla fine, mi portano un pezzo di stoffa tinta in una tonalità celeste e mi chiedono se il cliente approverà. Il colore è, certamente, una bella pervinca sotto una fonte di luce D65, che è come dire una lampadina che imita la luce del sole.

Ma la tonalità cambia radicalmente se poniamo il tessuto sotto una lampada TL-84, che imita la luce al neon, la più diffusa nei negozi. E si trasforma in uno strano viola sotto una lampada che imita la luce delle lampadine a incandescenza. Non so dare risposte.

Consegno a Sergio il campione di lana, cashmere e angora, tinto pervinca come il cappotto della ragazza nella fotografia. la ragazza che sembrava immortalata in un fotogramma di un film di Antonioni. Sergio sale in macchina e parte per Milano.

Tre ore dopo mi chiama per dirmi che il cliente è salito nel suo attico per osservare il colore. Passa un'altra ora e Sergio richiama e annuncia che il cliente trova quel pervinca nient'affatto male ma che è presto per l'approvaizone finale, perché quel giorno il cielo di Milano era coperto. Giudicherà di nuovo domani, sperando ci sia il sole.

Gli chiedo se stia scherzando. Intanto, Sergio torna a Prato. I tecnici e gli operai di rifinizione sono tutti in piedi, aspettando ansiosi il verdetto. Sono pronti a entrare in produzione, ossia prendere tutte le pezze di lana, cashmere e angora già tessute per tingerle color pervinca. C'è una data di consegna da rispettare.

Sergio dice di no, che non sta scherzando. Davvero il cliente non dà l'approvazione a un colore se non lo esamina alla luce del sole. E nessun altro può decidere al suo posto. Solo lui può farlo.

Sorrido. Penso di trovarmi di fronte a un evento meraviglioso, a metà strada tra magia e romanticismo. L'atmosfera che si doveva respirare fra gli artisti e i poeti della corte di Lorenzo de 'Medici. Quel committente decideva sulla base di un concetto molto personale di conoscenza. Sciamanico. alchemico, ispirato dal volgere del sole e delle nuvole.

Mi volto verso i tecnici e cerco di far passare quel comportamento come il capriccio eccentrico di un grande designer. Ma non c'è bisogno. Nessuno ride, nessuno perde la calma, nessuno pensa che si tratti di un capriccio. I tecnici annuiscono e sorridono, mi appaiono felici, forse onorati di essere chiamati a soddisfare le esigenze di un committente così raffinato. Quasi di un padrone assoluto. E per un istante mi sento come se non fossi più a Prato, in una rifinizione nel 1997 o nel 1998, ma nel laboratorio di un artista del Quattrocento a Firenze, sotto i Medici.

Il tecnico più anziano mi dà una pacca sulla spalla e mi dice: «Edoardo, con gli artisti devi avere pazienza».

E questo era lo stile italiano.

Edoardo Nesi

Montemurlo - Italy

New york Times

domenica 16 giugno 2013

MONTEMURLO, Italy

Almost nine years ago - on Sept. 7, 2004 - I sold my family's textile company, the Lanificio T. O. Nesi & Figli. Founded in the 1920s, it was one of uncountable thousands of small Italian companies swept away by, first, the rising tide of globalization and, then, the subsequent series of financial meltdowns. We produced first-class fabric and sold it to every fashion designer you've ever heard of. I was supposed to be the third generation of manufacturers in my family. Instead, I am the one who failed. Mine is a story of personal and familial loss that runs the length and breadth of Italy.

This succession of disasters is now undermining the very stability of our society, a society that was based on a dynamic array of small enterprises capable of producing excellent handmade products - a society that distributed wealth, instead of merely concentrating profits in the hands of a greedy few.

I know them all by heart, believe me, the arguments in favor of globalization. I'm well aware that it has helped lift tens of millions, perhaps hundreds of millions, of people out of poverty. I've listened to great thinkers describe in lofty tones how it constitutes a historical necessity. I've heard them say that globalization offers advantages to every consumer.

Let me tell you another story. The story of consumers who return home, every night, and become people, consumers who can no longer consume anything at all, except perhaps their lives. The story of the losing side, those who have realized, over the course of just a few years, that they have been left behind by history. The story of the raving ones, the furious ones, the ones who yearn for the past.

Of all the stories that I could tell you about the naïve belief, held dear around the world, that making fine-quality products would preserve us from failure and bankruptcy, I've chosen one of the happiest ones.

It must have been 1997 or 1998, one of the last few years when the small and still-smaller textile companies of the Italian provinces, and the hundreds of thousands of factory workers and artisans who made those companies run, were still pushing the economy forward. I was in Prato, where our factory and offices were located. Sergio Vari, our fabled director of sales who claims he once spent a whole summer with Led Zeppelin in Goa in the '60s, phoned me from Milan to say that we had to create a special color for a very, very important client.

"It's periwinkle, Edoardo," he says, "and the client wants this color in Cabora."

It was our finest cloth for overcoats, Cabora, a high-sheen fabric made up of a blend of superfine Australian wool, cashmere and angora.

"There's just one small problem, though. The color comes from a photograph."

"From a photograph?"

"Yes, and I'm looking at it now. It looks like the '80s, in London, and a beautiful girl is wearing a beautiful periwinkle overcoat. The client says that it reminds him of a scene from a film by Antonioni. He wants us to recreate that overcoat, in that color."

"And just what does the color periwinkle look like, Sergio?"

I asked, because I'm colorblind.

"The periwinkle is a flower, Edoardo. In the Middle Ages they used it to make love potions ... It's a beautiful shade of color ... it looks like a sky blue, with hints of violet ... and gray ... It really is lovely."

I say nothing to him about how complicated it's going to be to take an Australian wool, cashmere and angora blend and dye it a special color, or the fact that our chemists are going to lose their minds - that it's impossible to faithfully reproduce a color from a photograph. The challenge is too daunting, but the client is too important to refuse. We'd never worked for him before. He's a very important, very well-known fashion designer. You'd know his name if I told you.

I go to see the technicians and I explain the whole thing. About the periwinkle, the photograph, the cashmere and the angora. They smile and tell me that there's no way to reproduce a color like that and, as if that weren't bad enough, from an old photograph! In a wool, cashmere and angora blend! Impossible!

I tell them the name of the designer. They look at me, they look at one another. They nod. They say they'll give it a shot. In the meantime, the photograph arrives. The girl really is beautiful and the color of her overcoat is also really very lovely. At least, as much of it as I can see. ...

Emiliano Ponzi

It takes the technicians two weeks to fine-tune the color, and they run through eight bolts of cloth, frayed beyond repair by the process of being dyed and redyed. Finally, they bring me a piece of cloth dyed a heavenly hue and ask me under what light the client is going to approve the product. Because the color is, certainly, a lovely periwinkle under a D65 light source, which is to say a light bulb that imitates sunlight. But it changes radically under a TL-84 lamp, which imitates the neon lighting that was widely used in stores. And it turns into a strange violet under an A lamp, which imitates the light of incandescent bulbs. I tell them that I don't know. I really don't know.

I HAND over to Sergio the sample of wool and cashmere and angora cloth, dyed the same periwinkle as the overcoat from the photograph of the beautiful girl that looked like a scene from a film by Antonioni. Sergio gets into his car and leaves for Milan. Three hours later he calls me to say that the client has gone upstairs to his penthouse apartment and is looking at the color. Another hour later, Sergio calls back and announces that the client says that the periwinkle strikes him as not bad at all, but that he can't give final approval today, because the sky is overcast. He'll look at the color again tomorrow.

I ask him if he's joking. In the meantime, back in Prato, the technicians and the finishing workers are all standing by, anxiously awaiting the designer's verdict so that they can go into production, which means taking all the bolts of wool and cashmere and angora that have been woven in the meanwhile and starting to dye them periwinkle. There is a delivery date to be met. Sergio says no, he isn't joking. The client never approves a color unless there's sunlight. And no one can decide but him.

I smile. It strikes me as something wonderful, midway between magic and romanticism and the immortal standard set by the artists and poets of Lorenzo de' Medici's court; it is a perfect example of the deep-rooted logic of a highly personal form of knowledge, shamanic, verging on the alchemistic, and thus in thrall to sun and clouds.

When I turn to the expectant technicians, I decide to look on the light side, to pass it off as the eccentric whim of a great designer. But there's no need. No one laughs, no one loses his temper, no one thinks the client is being capricious. The technicians nod their heads and smile, as if they're happy, almost honored, to have been asked to satisfy the demands of an absolute master, and for an instant I feel as if I'm no longer in Prato, in a finishing mill, in 1997 or 1998, but in a 15th-century artist's workshop in Florence under the Medici.

The oldest technician slaps me on the back and says:

"Edoardo, with artists you just have to be patient."

And that was Italian style.

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Edoardo Nesi is the author of the memoir "Story of My People." This essay was translated by Antony Shugaar from the Italian.