Agnese Pini
SIENA
NON è convenzionale cominciare da loro. Ma la sera della resa di Marco Morelli il pensiero, anche della banca, va ai dipendenti. E non c’è retorica nello scarno comunicato che annuncia il fallimento dell’aumento di capitale del Monte dei Paschi e ringrazia «il lavoro del personale». Perché in questa disfatta, destinata a segnare una tappa storica nel rapporto tra istituti di credito e Stato in Italia e in Europa, se qualcosa di buono ci sarà da ricordare è l’impegno dei lavoratori. Gli unici che hanno portato frecce all’arco sguarnito dell’amministratore delegato, coi 2 miliardi e 451 milioni di bond subordinati convertiti in azioni. Tantissimi, considerato il contesto velenoso in cui si è svolta l’operazione, ma non sufficienti a salvare il piano di ricapitalizzazione sul mercato, che prevedeva un pacchetto da 5 miliardi.
SI APRE così la strada alla «banca pubblica», prototipo archiviato da almeno un ventennio e tornato improvvisamente di moda, con il consiglio dei ministri al lavoro, nella notte, per definire il decreto salva-risparmio: un ombrello da 20 miliardi per le banche in crisi. La parola fine è arrivata dal cda riunito a Milano contestualmente all’avvio dell’iter per l’aumento precauzionale fatto dallo Stato e con il titolo che ha chiuso a -7,48% a Piazza Affari. Oggi Consob ha deciso di sospendere gli scambi su tutti i titoli dell’istituto. Si chiude la controversa avventura senese iniziata a giugno, con la lettera intimidatoria della Bce sulla «dismissione dei 27 miliardi di crediti deteriorati» che gravano sulla banca più antica del mondo. E che, in sei mesi, non ha risparmiato nulla, tra alti dirigenti defenestrati – Fabrizio Viola e Massimo Tononi –, investitori evaporati all’improvviso, potentissimi advisor da oltreoceano. L’operazione è stata tenuta a galla fino all’ultimo istante utile con l’ostinazione di un accanimento terapeutico. Pure quando l’insuccesso era già stato scritto dai fatti, precipitati dopo la vittoria del No al referendum e le dimissioni di Matteo Renzi. Morelli ha seguito tutto con estenuante pignoleria, anche per tutelare se stesso e soci da possibili controversie giudiziarie.
NEI FATTI è stato il mercato – «assenza di fondi istituzionali disposti a partecipare» – a decretare l’insuccesso di un’operazione squisitamente politica. Con la strada dell’aumento di capitale tracciata fin dall’estate dall’allora governo Renzi, garante – non è chiaro a quali condizioni – dei tasselli principali del piano. Dall’intervento del Qatar, che aveva promesso un miliardo ma che, dal 4 dicembre, ha fatto perdere le sue tracce, al ruolo di Jp Morgan. A parziale consolazione, il fatto che il maxi compenso da 500 milioni per la banca d’affari era subordinato al successo dell’operazione. E quindi sarà sospeso.
TUTTA ACQUA passata, in ogni caso. Il futuro prevede un altro tour de force per iniettare liquidità nella banca entro la fine dell’anno. Secondo le normative europee, la ricapitalizzazione preventiva – che dovrà comunque incontrare l’ok della Commissione Ue – non si potrà attivare senza il burden sharing. In pratica, il peso del risanamento verrà condiviso dallo Stato con obbligazionisti e azionisti. Non è chiaro a quali condizioni. Ma potrebbero essere svantaggiose per i possessori dei bond subordinati, i più a esposti in questa partita. Il tutto sarà a tempo. La durata dell’intervento pubblico nel capitale ha per legge un termine: dovrà durare al massimo 18 mesi secondo la normativa Ue. Ma su questo limite, sembra, è già in corso un braccio di ferro. L’ennesimo, tra Roma e Bruxelles.