Correva l'anno 1886 e un ricco signore bolognese, Archimede Menarini, aprì nel centro di Napoli, in via Calabritto, una farmacia. La chiamò "Farmacia Internazionale".
Internazionale: oggi appare una denominazione normale, anche un po' scontata. Ma nel 1886, l'Italia - cioè il Regno d'Italia - era nato da poco più di 20 anni e pensare già in termini di "internazionale" dimostrava una visione davvero lungimirante per l’epoca.
A quei tempi, i farmacisti "producevano" le medicine, secondo quanto richiesto dal medico partendo dalle materie prime e combinandole insieme seguendo una specie di "ricettario" ufficiale chiamato "Farmacopea Ufficiale". La farmacia internazionale Menarini iniziò anche a produrre dei farmaci per altri farmacisti, col nome dell’azienda. Non era una pratica inusuale. A differenza delle industrie farmaceutiche tedesche che sono nate come differenziazioni dei colossi chimici, le aziende farmaceutiche Italiane, come quelle francesi e molte delle americane, sono nate dalla intraprendenza di farmacisti hanno messo le basi di grandi industrie partendo da una produzione poco più che manuale nel retro della loro farmacia.
Archimede Menarini aveva una marcia in più rispetto ad altre farmacie, i suoi prodotti si vendevano bene, anche grazie ad una elegante immagine delle confezioni e della pubblicità. La rete commerciale si sviluppò rapidamente in Italia e all'estero. Il laboratorio della Farmacia di via Calabritto andava stretto. Occorreva uno stabilimento industriale dove fare ricerca e produzione. Occorreva poi spostarsi in una città più a Nord.
Archimede scelse Firenze, probabilmente per la vicinanza ad Empoli, grande produttrice - in quegli anni - di vetro per le fiale e per le bottiglie dei farmaci. Le campagne del Campo di Marte furono scelte per la vicinanza alla città e soprattutto alla stazione ferroviaria del Campo di Marte.
Lo stabilimento fu inaugurato un secolo fa, nel 1915, nella stessa sede dove è tutt'ora la casa madre - o Headquarters come si dice per le multinazionali - del Gruppo Menarini.
Lo stabilimento aveva la classica conformazione ad "U" della architettura industriale di quei tempi. La facciata - con l'ingresso e gli uffici - dava su via Sette Santi (allora ancora chiamata via San Gervasio). Le due ali con i reparti produttivi si allungavano nella campagna, tutti a piano terra per semplificare lo spostamento dei materiali. Gli ascensori e i montacarichi erano ancora costosi e poco affidabili per le attività produttive. All'interno un piazzale con ghiaino, usato come magazzino all'aperto e per movimentare i materiali.
Nei disegni dell'epoca, la fabbrica è rappresentata con una ciminiera fumante. La ciminiera naturalmente non c'era - in una industria farmaceutica - ma nell'immaginario dell'epoca – un stabilimento produttivo non poteva non avere una ciminiera fumante!
L’ingresso principale era al numero 1, come oggi. Le merci entravano ed uscivano da un ingresso posto sul retro, dove è poi nata via Rosolino Pilo.
Proviamo adesso ad entrare con l'immaginazione nello Stabilimento Menarini del 1915. Varchiamo la soglia di via Sette Santi, 1 e ci troviamo negli uffici e nei laboratori.
Negli uffici, dimentichiamo computer, internet, WiFi, video-conferenze per comunicazioni in real time tra le affiliate Menarini nel mondo. Le foto di 100 anni fa ci mostrano austere scrivanie in legno, il telefono - in legno e bachelite - con la chiamata a manovella, per generare la corrente elettrica necessaria ad attivare la comunicazione.
Sui tavoli: timbri, calamai, penne a cannuccio, pennini, carta assorbente ma soprattutto le matite.
Sono proprio le matite quelle che la segretaria utilizza per scrivere le lettere che verranno poi "battute" a macchina (una Olivetti). Infatti più che scriverle, le lettere, si "battevano" premendo con tanta più forza sui tasti quante più saranno le copie (con carta carbone e veline) da archiviare o da spedire.
Spedire, per posta naturalmente. Per le spedizioni "su città" partiva invece un veloce fattorino, in bicicletta!
Purtroppo le immagini non ci mostrano gli impiegati della amministrazione, che ci immaginiamo con dei manicotti di stoffa scura che si indossavano dai polsi agli avambracci per proteggere i gomiti e le camicie dall'usura e soprattutto dalle macchie di inchiostro.
Erano le “mezze maniche”, che per estensione venivano utilizzate per definire - con un pizzico di sfottò - la categoria degli impiegati.
Eccoci poi nel laboratorio, chiamato “gabinetto di analisi”. Un altro salto nel passato: tavoli in legno e becchi bunsen, filtri, distillatori, bilance in ottone e tante bottiglie col tappo in vetro smerigliato. La luce proveniva da una piccola lampada appesa alla parete, una "applicche" come si chiamava (dal francese “applique”, applicata, appunto).
Ci spostiamo adesso nei reparti produttivi, disposti lungo i lati dello stabilimento a circondare il cortile interno, adibito a magazzino e per il carico e scarico.
La disposizione sui lati consentiva l'impiego dei grandissimi finestroni e dei lucernari che si vedono sulle immagini.
La necessità di assicurare un’ illuminazione sufficiente ai reparti produttivi era infatti uno dei compiti più difficili per gli architetti del tempo.
Le luci a LED ed i neon erano di là da venire e le fioche lampadine ad incandescenza segnavano un passo avanti rispetto alle lampade a gas del secolo precedente, ma di luce ne facevano poca. Ecco quindi la necessità dei grandi finestroni affacciati sul cortile interno e sulle strade. D'altra parte, di case intorno allo stabilimento, posizionato in una zona così periferica della città (allora !), ce ne erano davvero poche.
La maggior parte delle maestranze è costituita da donne, l’Italia è da poco entrata in guerra e molti uomini sono già stati richiamati alle armi.
Questi finestroni erano certo utilissimi per fornire la luce indispensabile per il lavoro ma non offrivano gran protezione, con i sottili vetri dell'epoca, né dal caldo dell'estate né dal freddo dell'inverno, cui ci si difendeva con stufe a carbone e … maglioni. Per di più, nei mesi estivi, gli ampi finestroni non potevano essere aperti per lasciar passare liberamente la brezza proveniente da Fiesole. Infatti via Sette Santi, via Marchetti e via Rismondo non erano asfaltate ma ancora "strade bianche".
Qui vediamo l'ingegnoso sistema impiegato per motorizzare i vari macchinari. Dotare ogni macchina di un motore proprio era allora un costo ed una complessità costruttiva notevole. In alto, sulla parete, era installata un asse di ferro che veniva tenuto in movimento da un unico motore tramite puleggia e cinghie in cuoio. Le varie apparecchiature (nella foto si vede una bassina per i pastigliaggi) prendevano il moto da questo asse rotante, sempre con cinghie e pulegge.
La velocità del moto era determinata dal diametro delle pulegge utilizzate. Incrociando le cinghie si poteva invertire la direzione del moto.
Per l'infialamento dei flaconi si utilizzava una infilatrice a depressione dal nome importante di “Apparecchio Pneumatico del dottor Marcacci”.
Per la chiusura dei flaconi ci si affidava ad un sistema un po' più manuale, tappo in sughero e …. il martelletto di legno impugnato con orgoglio del signore con i baffoni della foto.
In questo reparto si imbottigliava il Metarsile con una cadenza produttiva di ben 10.000 flaconi al giorno, una produzione di tutto rispetto all’epoca. Il Metarsile, come indicava la pubblicità dell’epoca, era un ricostituente “sicuro per adulti e bambini” che “può essere acquistato in tutte le farmacie a lire 3 la bottiglia”. Con il Metarsile, Menarini iniziò la sua attività all’estero con le prime esportazioni in Spagna del farmaco “made in Campo di Marte”.
Un altro best seller di Menarini era la Euzymina, un coadiuvante per la digestione a base di enzimi (la pubblicità dell’epoca ottimisticamente recitava “digerisce le pietre”). Le didascalie delle vecchie foto indicano una produzione settimanale di ben 50.000 flaconi di Euzymina.
La Euzymina è il farmaco più longevo della Menarini in quanto è rimasto in produzione fino agli inizi degli anni 2000 nello stabilimento Berlin Chemie in Germania.
Nei reparti produttivi, tante donne, la seria divisa da lavoro lascia intravedere le scarpe e le pettinature foggiate secondo la moda dell'epoca, che il cinema (naturalmente, muto ed in bianco e nero) diffondeva nel mondo, tempi del Charleston, "Stanlio e Ollio", Rodolfo Valentino e lo Sceicco Bianco. Il fotografo ci offre una scatto ravvicinato delle lavoranti del reparto fiale. La chiusura delle fiale era, naturalmente, del tutto manuale. Lungo il muro si vede il tubetto che portava il gas di città al cannello utilizzato per saldare le fiale.
Una cuffietta, anch'essa molto "anni '20" raccoglieva i capelli, gli occhi erano protetti da degli occhiali avvolgenti, simili a quelli di moda oggi.
La forma avvolgente delle lenti, per assicurare una migliore protezione, fa pensare che fossero di “celluloide”, una delle prime materie plastiche trasparenti, utilizzata anche per le maschere antigas della prima guerra mondiale e per le vecchie pellicole cinematografiche.
I farmaci venivano imballati in casse di legno, costruite anch’esse in un apposito reparto dello stabilimento.
Dal retro della fabbrica le casse venivano trasportate, via camion o più spesso con carri (condotti dai “barrocciai”), nella stazione del Campo di Marte la cui vicinanza è stata, come detto, uno degli elementi determinanti per la scelta del luogo su cui edificare lo stabilimento. Tuttavia, se la prossimità con la ferrovia ha reso pratica la gestione delle spedizioni, nei primi decenni di attività dello stabilimento di via Sette Santi, la stessa vicinanza si è poi rivelata fonte di grande pericolo durante la seconda guerra mondiale quanto gli aerei alleati bombardarono più volte e pesantemente l’importante nodo ferroviario del Campo di Marte.
Particolarmente dura è stata l'incursione del 25 Settembre 1943, le cui bombe provocano 215 morti a Firenze, danneggiarono la chiesa dei Sette Santi e sfiorarono lo stabilimento Menarini.
Ma questa è un'altra storia....