Massa Carrara, 8 settembre 2011 - I TOSCANI? Provinciali di serie A. Così li definisce Carlo Verdone, precisando che si tratta di un grosso complimento: «Quello dei toscani — dice il regista e attore — è un sano provincialismo, ossia un fortissimo attaccamento alla propria identità culturale. I toscani sono in questo senso conservatori ma all’interno di una mentalità cosmopolita costruita da secoli di arte e da un flusso ininterrotto di viaggiatori e intellettuali che l’hanno eletta e la eleggono a seconda patria».
Carlo Verdone è uno dei protagonisti di Con-Vivere, il festival di Carrara giunto alla sesta edizione e dedicato quest’anno, per i 150 anni dell’Unità, alla convivenza tra italiani. La tre giorni di lezioni, storia, film, spettacoli e riflessioni inizia domani e tra i relatori non poteva mancare l’autore di Bianco Rosso e Verdone che parlerà (domani sera alle 21, Cortile Istituto Figlie di Gesù) del carattere degli italiani visti attraverso i suoi film.
C’è ammirazione nelle parole di Verdone a cui abbiamo chiesto di raccontarci i toscani dal suo punto di vista: quello di un romano il cui padre Mario, celebre studioso di storia del cinema, scomparso due anni fa, era nato a Siena.
«Anche per me — dice — la Toscana è una seconda patria dopo Roma. Sono venuto in Toscana con papà fin da quando ero piccolo. A Siena in primo luogo, la sua città mai dimenticata, anzi sempre amatissima. Ha vissuto più di settanta anni a Roma ma non ha mai smesso di parlare senese! E naturalmente non ha mai smesso di gioire e di soffrire per la sua contrada, la Selva. Poi sono stato con lui a Firenze, a Lucca, a Viareggio, a Pietrasanta, e per molti anni in vacanza a Forte dei Marmi, al Cinquale e anche a Marina di Massa e Marina di Carrara, dove papà aveva molti amici. Tanti artisti che grazie a lui ho conosciuto anch’io: Maccari, Cascella, Krimer, Salimbeni... No, mio padre non ha cessato mai, nemmeno per un momento, di essere senese e toscano».
E lei e i suoi fratelli avete trovato conferma di questo attaccamento anche nella sua sterminata biblioteca.
«Sì, dopo la sua morte, quando abbiamo smantellato la casa di Roma e quella in campagna — impresa titanica, più di undicimila volumi — siamo rimasti sorpresi: aveva centinaia e centinaia di numeri de La Nazione, dal 1937 a oggi, conservava la storia della sua regione attraverso i quotidiani e altre pubblicazioni. A conferma di quel provincialismo di serie A di cui dicevo all’inizio».
Quale altra caratteristica attribuisce ai toscani?
«La vena polemica è nota, spiritosa, robusta, ma a questa si deve subito aggiungere una terza caratteristica: il buonsenso. Carattere testardo, perfino coriaceo, ma con una saggezza di fondo caratteristica del popolo, dei contadini e quindi mai fine a se stessa, mai completamente distruttiva».
La Toscana nei suoi film?
«Al lupo al lupo è un omaggio a mio padre ma anche alla Toscana, girato in tutti i luoghi dove sono stato con lui. In Viaggi di nozze con Claudia Gerini abbiamo girato una scena sul pontile di Forte dei Marmi e in quel caso era un piccolo omaggio segreto a mia mamma: ricordo un giorno in cui ero ragazzo e con lei, che amava il mare in tempesta, andammo su quel pontile a vedere le onde altissime e ad ascoltare l’urlo del libeccio. Fu un momento di grande intensità».
Ma c’è un altro ricordo legato a quella scena girata a Forte dei Marmi.
«Che paura! Dopo aver girato, Claudia mi chiese di portarla a vedere le cave di marmo. Andammo in macchina oltre Colonnata e non so come senza rendercene conto ci trovammo in una zona proibita: ce ne accorgemmo quando sentimmo un’esplosione a pochi metri sopra la nostra testa. Un boato, pietre che rotolavano, panico, di corsa alla macchina con il cuore a tremila. Abbiamo rischiato la vita!».
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