REDAZIONE UMBRIA

L'indimenticabile Amici Miei; "Io, l'architetto Melandri in un'Italia che era allegra e sincera" / ESCLUSIVO

Intervista a Gastone Moschin, uno degli interpreti della intramontabile pellicola di Monicelli

di Roberto Conticelli

Narni (Terni), 1 agosto 2015 - Parlo con l’architetto Rambaldo Melandri? «No, guardi, io sono Gastone Moschin: quello magari è il mio secondo nome...» Proprio lui, Moschin, oggi 86 anni, un grande del palcoscenico e dello schermo, protagonista di decine di pellicole della commedia all’italiana e ultimo re della trilogia di “Amici miei”, sceglie di confessarsi con «La Nazione», giornale che ebbe per forza di cose un rapporto privilegiato con i capolavori pensati da Pietro Germi e diretti da Mario Monicelli (le prime due uscite) e Nanni Loy (la terza). Inevitabilmente attraverso le parole di Moschin passano in controluce gli anni di quell’Italia bella e complessa, tenera e violenta: i Settanta di piombo e gli Ottanta dell’illusoria rinascita.

Maestro, cosa ricorda della Firenze di quella stagione irripetibile, quando con Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Adolfo Celi e Duilio Del Prete, e poi anche con Renzo Montagnani, “impazzavate” per le strade della Toscana?

«Beh, era tutta un’altra cosa. Le zingarate ci portavano ovunque tra borghi, ristoranti e trattorie. Era una Firenze ancora genuina, un’Italia sincera. Oggi è cambiato perfino il modo di girare le pellicole. Ora c’è più professionalità, certo, ma allora poteva accadere che quando la giornata di riprese volgeva al termine e gli addetti ai lavori non avevano ancora consumato il cestino del pasto, Monicelli ritardasse volutamente la lavorazione per far cenare la troupe, i tecnici e gli inservienti. Erano tavolate di divertimento e goliardia, ma anche di rispetto. A quei tempi si stava insieme di più, e il rapporto tra le persone non poteva che migliorare».

Già, Monicelli, un signore...

«Ecco, basta questa definizione: un signore attento ai dettagli, interprete fedele dell’idea di Germi ma capace, in virtù del rapporto che instaurava con gli interpreti, di far lavorare tutti al meglio anche sul filo dell’improvvisazione».

Qualcuno ha definito “Amici miei” il film perfetto, uno di quelli per cui si resta incollati davanti allo schermo fino al termine...

«Pensi che io l’avrò visto, all’epoca, un paio di volte e non più. Ero nel pieno dell’attività, avevo molti impegni allora. Adesso ogni tanto mi chiama qualche amico o parente e mi racconta di essersi imbattuto con uno dei tre episodi in questo o quel canale. La cosa mi fa piacere, ma ormai io vedo ben poca televisione».

Eppure quei tempi e quell’Italia non possono non farle tornare in mente i suoi colleghi di allora, da Tognazzi a Noiret, a tutti gli altri: chi ha apprezzato di più?

«Per Renzo Montagnani ho avuto affetto, con lui sono stato in sintonia. Persona squisita. Sarà stato anche perché giravamo in Toscana e lui vestiva la regione come fosse la sua giacca più bella... ».

E oggi? L’Italia odierna potrebbe essere riletta attraverso lo sguardo cinematografico di un Monicelli dei nostri giorni?

«Impossibile. Ogni epoca ha le sue storie, i suoi splendori e le sue sciagure. Non c’è un Monicelli del 2015 e non ci sono più gli attori di allora. Ci sono altri attori e quindi altri talenti legati ai tempi che viviamo, ma non mi vengono in mente nomi particolari perché io ormai mi considero uno spettatore assai distratto».

La scena degli schiaffoni ai passeggeri del treno resta, tra le immagini mitiche del film, quella che ancora oggi scatena entusiasmo...

«Io invece ricordo con particolare affetto una breve sequenza girata all’interno dell’auto, di sera, davanti a una giostrina, di ritorno da una delle tante zingarate: c’era come un’ombra di tristezza, ciascuno l’indomani sarebbe dovuto tornare alle proprie occupazioni, a quelle del copione o forse a quelle della vita reale. La festa era finita e non c’era, almeno nell’immediatezza, un altro Sabato del villaggio all’orizzonte. In me, ma anche in Tognazzi e negli altri, quella sera si fece strada una vera malinconia...».

Maestro, da anni lei ha scelto di vivere in Umbria, immerso in uno splendido angolo di campagna...

«Chissà, forse la straordinaria raffinatezza della dimensione provinciale di “Amici miei” potrebbe avermi in qualche modo influenzato, ma in fondo una scelta del genere fa parte del mio carattere. Ciò non toglie che ogni tanto non vada con il pensiero a quei momenti, a quel film, a quando eravamo sempre in giro, a quando con Monicelli e gli altri vivevo intensamente tutte le fasi della lavorazione. Tempi belli, che ricordo anche perché sono sempre dentro di me. Pensi che soltanto adesso, parlando con lei, mi rendo conto che sono trascorsi appena appena quarant’anni».