Firenze, 16 aprile 2021 - Il primo modo per combattere la mafia è chiamarla con il suo nome. Quella di sminuirla è una tentazione in cui si cade facilmente, ancora oggi, in terre non abituate – per cultura e per storia – a essere associate ai clan. L’inchiesta della Dda di Firenze è doppiamente importante e dirompente, allora, non solo per la sua portata: ventitré arresti, decine di indagati. È importante soprattutto perché pone la Toscana di fronte alla perdita di una supposta innocenza: è la prima volta, questa, in cui la ’ndrangheta arriva così esplicitamente a infiltrarsi nei meccanismi più vivi e fondanti dell’economia e della politica della regione, insinuata fin nel cuore del Palazzo e del potere e fin nel cuore delle attività produttive.
È la soluzione finale delle associazioni malavitose: trovare facce pulite tramite cui accrescere affari sporchi. Tra i nomi eccellenti finiti nell’indagine ci sono esponenti dell’Associazione Conciatori, c’è una sindaca, c’è un consigliere regionale, c’è il capo di gabinetto della Regione. Le accuse che cristallizzano le loro implicazioni e le loro responsabilità nell’inchiesta dovranno certo essere verificate e confermate. Ma resta il fatto che siamo di fronte a un cambio di passo: la ’ndrangheta sarebbe riuscita a fare il salto di qualità, a passare dall’illecito conclamato all’illecito strisciante nel tessuto sano di una terra che più che mai oggi, anche a causa delle conseguenze della pandemia, ha bisogno di essere difesa e tutelata. Senza alibi. Guardiamola in faccia, la ’ndrangheta. E chiudiamole la porta finché siamo in tempo.