Silvia Santini
Archivio

Parà massacrato sugli scogli: svolta dopo 20 anni di silenzi Ora spuntano due testimoni

Intervista esclusiva ai familiari di Mandolini sul giornale oggi in edicola

Marco Mandolini, il paracadutista ucciso nel giugno del 1995: il suo assassino non ha ancora un volto

Livorno, 19 settembre 2015 - Vent'anni dalla morte di Marco Mandolini il cold case si riapre. A dir la verità l’inchiesta non era mai stata archiviata ufficialmente, ma pare che adesso gli inquirenti stiano battendo la pista giusta per dare un volto all’assassino. Il sottufficiale dei reparti speciali dei paracadutisti della Folgore Marco Mandolini, 34enne di Castelfidardo, capo della scorta del generale Bruno Loi in Somalia, era stato massacrato la sera del 13 giugno 1995 a Livorno con quaranta coltellate e finito con una pietra che gli aveva fracassato il cranio. Due i testimoni che gli inquirenti stanno ascoltando in interrogatorio in queste ore. Potrebbe essere il momento più delicato dopo vent’anni dalla morte di Mandolini. 

La famiglia non ha mai smesso di chiedere giustizia, di battersi soprattutto contro i tentativi di depistaggio. Fino a oggi però si è trovata di fronte un muro di omertà. In passato si era percorsa la pista del delitto passionale a sfondo omosessuale e quella del complotto internazionale che avrebbe visto Mandolini vittima di manovre torbide, sospetto anello di congiunzione tra tanti morti come quelle dell’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e del suo cameraman Milan Hrovatin. Poco più di un anno fa a Livorno è arrivata la notizia del ritrovamento del dna del presunto assassino del parà. I magistrati hanno sottoposto al test un gruppo di persone e tra queste anche i commilitoni del sergente maggiore del «Col Moschin», il reparto degli incursori. Nessun esito però. 

Altra pista: Mandolini avrebbe investito i suoi soldi in una finanziaria poi fallita. L’inchiesta ha virato verso il movente economico. Dopo l’omicidio infatti, l’assassino ha avuto l’ardire di togliere dai pantaloni della vittima il portafoglio prendendo i soldi e lasciando però i documenti personali. Un altro tentativo per sviare le indagini? Non è ancora dato saperlo. Quando tornò dalla Somalia però raccontò al fratello che voleva investirli in due appartamenti qui e in un villaggio a Zanzibar, quindi ce n’erano ancora molti. Prima di morire Mandolini era stato reclutato in una squadra speciale della Nato in Germania, era diventato uno degli istruttori dei migliori reparti del mondo. Un lavoro di certo molto delicato per cui serviva estrema riservatezza. Allo stesso tempo quindi era una persona addestrata al massimo delle capacità, un fattore che la famiglia non si rassegna a sottovalutare, decisa a pensare che il proprio caro non si sarebbe mai recato da solo in quella scogliera se avesse saputo che lì si celava un pericolo. Adesso c’è un pool di esperti a mettere mano all’inchiesta, composto dall’avvocato Stefano Maccioni del foro di Roma (nome storico del caso Pasolini), dalla criminologa Imma Giuliani e da ultimo il dottor Enrico Lisso, massimo esperto di medicina forense e nello studio delle macchie ematiche.