
Alessandro Bergonzoni
Arezzo 13 luglio 2021 - Un anno e mezzo fermo come tutti, costretto a mantenere il contatto col suo pubblico, anche in ospedale e in carcere in video e sui social, in attesa di ripartire. E’ successo a maggio al teatro Duse di Bologna con l’emozione di rivedere la gente applaudire alla riapertura del teatro. Alessandro Bergonzoni ricomincia il tour con i suoi esercizi di fantasia come un pifferaio magico della parola tra salite e discese, freddo e caldo, lungo e corto, con lo spettacolo “Trascendi e sali” stasera 13 luglio alle 21,15 al Teatro Petrarca di Arezzo per il festival Smart di Officine della Cultura, Direzione regionale musei Toscana, Fondazione Guido d'Arezzo e La Filostoccola. Poi il 15 luglio a Pesaro e il 18 a Rovigo, per ora.
Un monologo nato nel 2018, ma nel frattempo è successo di tutto. Il testo è cambiato?
“No, non ho cambiato niente, è la gente che lo vede con occhi diversi, è cambiato il loro atteggiamento verso le cose di cui parlo come malattia o morte. Vedono quello che abbiamo vissuto. Come fosse una premonizione da artista parlo di un vaccino fatto apposta per noi. La gente ci legge l’attualità, il Covid, gli ospedali, Bergamo”.
E lei oggi come lo legge?
“Come autore quando parlo di certe cose non lo lego a un momento particolare o a fatti di cronaca. La mia è una idea universale, allargata, che porta il pubblico a trascendere la realtà, ad andare in un’altra dimensione, la gente ci sale sopra, la cavalca e quando scende le dà i significati che vuole. Ognuno apre il suo cassetto”.
Esercizi di fantasia e immaginazione al potere.
“Oggi la fantasia manca e manca l’immaginazione, sembra che la gente sia diventata insensibile, ma se gli dai gli strumenti per risvegliarla allora scopri che ce n’è bisogno, la gente la prende pronta a lanciarsi in alto e se ci si butta, vuol dire che gli mancava. E’ come quando senti un suono, una musica, la riconosciamo, la vediamo, la sogniamo mentre i media hanno abolito proprio i sogni e l’immaginazione. Oggi quando si pensa alla fantasia ci viene in mente lo spot che ci invita a comprare qualcosa, ma l’abbiamo dentro, fa parte della nostra vita, risvegliarla è il compito dello spettacolo che non è un momento di svago, non è un divertimento, è arte, mestiere, è parte della vita, è una medicina”.
La parola può ferire, dunque, ma anche guarire.
“La parola può creare e curare, è una rivelazione e ti da lo strumento per potere conoscere e sapere. La parola può anche ferire e uccidere, te ne rendi conto quando viene tolta, come nei casi dei nostri tiranni libici, egiziani e ungheresi che mettono in carcere registi, scrittori, giornalisti. Noi crediamo di essere un paese libero, ma abbiamo abusi e omertà. Nei libri, nel teatro, nella musica la parola ti fa capire prima, è veggenza, preveggenza, se non c’è pensiero sotto la parola ci fermiamo ai rebus, ai calambour, agli anagrammi, se sotto non ha un’anima succede come nei social, serve solo produrre o autoprodursi, io invece mi sento invocato ed evocato, io non gioco con le parole, sono le parole che giocano con me, le parole esistono già, io non sono un autore ma un autorizzato”.
Testimonial da diciassette anni della Casa dei risvegli di Luca De Nigris a Bologna per la riabilitazione di chi è uscito dal coma. Tiene spettacoli negli ospedali e nelle carceri.
“Noi artisti abbiamo dei privilegi, usiamoli. Dobbiamo spenderci pubblicamente, siamo come la spesa pubblica. Ho sentito persone non interessate al problema del coma o del carcere perché nella loro vita non ci si sono dovuti confrontare. Eppure risvegli e carcere sono collegati. Un detenuto mi disse: risvegliarsi dal coma è come uscire da un carcere, ma la tenerezza nei confronti del malato la prova chiunque, verso un carcerato poche persone, vuoi veramente farmi uscire del coma? E se viene picchiato come è successo a Santa Maria Capua Vetere la gente pensa che se lo sia meritato. Ma se costruisco dei mostri all’interno, quale sarà il ritorno sociale? ”.
Ha scritto una lettera per Patrick Zaki in cui ha parlato anche di migranti, della missione Mediterranea, di Regeni, di carceri, di Amnesty dicendo, di una diplomazia non è più così viva come deve essere.
“Abbiamo antenne, e siamo captatori e percepiamo, questo è il nostro lavoro, le nostre performance, l’arte sono la necessità esterna di essere chiamati, una forza estrema. Un artista quando ha finito di fare teatro, libri e mostre deve continuare il lavoro nelle scuole e andare dove deve andare anche se non è chiamato. Non siamo un’isola”.
Eppure nei suoi spettacoli si ride.
“Certo, amo la risata di pancia, grossa, fragorosa poi subito una raggelata, come un elastico che si tende si richiude, ancora alto e basso, freddo caldo, lungo e corto, il pubblico esce affaticato, se non si ha niente da dire non mi diverte”.
Concludiamo con i suoi giochi di parole: il mare che si ritira per pensare, attento caduta neve il problema è suo non posso pensare a tutto io, attento al palo ma anche a chi fa la rapina, sono cani da valanga se la creano ma antivalanga se la evitano e se non avessero seguito il gatto delle nevi non sarebbe mai successo sono fra le sue battute. E allora ecco un’altra citazione: tutto torna come dopo?
“Certamente, ho già nostalgia del futuro”.