Salvatore Mannino
Cronaca

«A libro paga per 300 euro un funzionario del fisco»

Sotto accusa per corruzione: avrebbe passato i dati del sistema informatico interno a un costruttore amico. Lui nega tutto: gli ho fornito dati non sensibili

Toghe in tribunale

Toghe in tribunale

Arezzo, 20 novembre 2019 - E’ accusato di essere stato a libro paga di un costruttore edile di Livorno, Paolo Salemmo, già presidente della squadra di calcio labronica. Il gruppo imprenditoriale gli avrebbe passato trecento euro a trimestre in cambio delle informazioni che lui riusciva a carpire dal sistema informatico del fisco. Inutile dire che Emanuele P., per alcuni anni funzionario dell’ufficio di Arezzo dell’agenzia delle entrate, nega tutto.

Lo ha fatto anche ieri nel corso dell’interrogatorio da imputato dinanzi al collegio del tribunale presieduto da Gianni Fruganti. Ma questo non basta ancora a fermare la macchina della giustizia. Comincia tutto fra il 2016 e il 2017, quando esplode il caso del gruppo Salemmo, prima coinvolto in varie inchieste giudiziarie e poi sprofondato nel crac. Fra parentesi, anche l’ex presidente è scomparso qualche mese fa.

Sono i magistrati della procura di Livorno a scoprire il ruolo del funzionario rovistando nei conti dell’azienda. Viene fuori un appunto della contabilità nera nel quale c’è scritto: «Emanuele, 300 euro a trimestre». Ai Pm basta per ipotizzare la corruzione, ma il caso è più complesso perchè l’ingresso non autorizzato all’anagrafe fiscale costituisce un reato a parte, l’accesso abusivo a sistema informatico che è di competenza della Direzione Distrettuale antimafia.

Le carte passano dunque alla Dda fiorentina, che istruisce l’inchiesta e ottiene il rinvio a giudizio da parte del Gip. Il tribunale competente, però, è quello di Arezzo, dove sarebbero avvenute appunto le incursioni nell’anagrafe del fisco. Ecco dunque che il processo approda a Palazzo di giustizia. Il funzionario si difende: è vero che ho consultato i dati on line, ma l’ho fatto solo per fare un piacere a un amico.

E comunque non si trattava di dati sensibili, di quelli cioè coperti dal segreto, ma di informazione che erano reperibili anche attraverso il ricorso a fonti aperte, quelle cioè che chiunque può trovare navigando in Internet e ricorrendo a sistemi più tradizionali. Una verità che sembra non collimare con le intercettazioni telefoniche disposte a suo tempo dalla procura livornese e anche con quanto risulta dai tabulati, dove i contatti fra il dipendente del fisco e il gruppo imprenditoriale risultano evidenti.

Pure i dirigenti nazionali dell’agenzia delle entrate e quelli regionali sono convinti che l’accesso alle informazioni sia stato illegittimo: il funzionario non poteva accedere a quei dati, non rientrava nelle sue funzioni. Più problematica la testimonianza del direttore della sede aretina: qui c’era una prassi di larghe vedute, eravamo abituati a fornire ai contribuenti la massima collaborazione possibile, anche con l’accesso all’anagrafe.

Il processo è fermo a questo punto, diventano decisive le prossime udienze, nelle quali sfileranno i testi a difesa. La posizione dell’accusato è ancora in bilico, basta un particolare per farla scivolare da un lato o dall’altro. Chi è dunque il signor Emanuele: uno che ha solo fornito informazioni di nessuna importanza a un gruppo amico ed è poi rimasto vittima di una serie di equivoci oppure uno che arrotondava lo stipendio pubblico con la paghetta che gli forniva l’imprenditore col quale era in contatto?

In questo ultimo scenario è indubbio che ci sia stata corruzione, ma l’onere della prova grava sulla pubblica accusa, in questo caso il Pm Andrea Claudiani. Fa tutta la differenza che c’è fra una condanna che può essere anche pesante (solo la violazione del sistema informativo vale una pena fino a tre anni) e un’assoluzione che restituisca al funzionario dell’agenzia delle entrate, nel frattempo sottoposto a procedmento disciplinare e punito, l’onore perduto.