Claudio
Santori
Antonio o Marcantonio Cesti, chi era costui?. Già, ci sono personaggi della cui importanza rimane traccia, salvo una ristretta cerchia di specialisti, solo nella targa di una strada. In questo caso nel quartiere di Saione, senza probabilmente che neppure i residenti sappiano di vivere nella via dedicata al musicista (aretino) più importante a livello europeo (e quindi a quel tempo mondiale) della prima metà del ’600. Cui per giunta è toccato in sorte di essere ribattezzato nella sua città natale col nome spregiativo di Marcantonio col quale lo avevano etichettato gli avversari. Sarebbe tempo di cambiare quella targa e restituire Cesti al suo vero nome, rimediando a una beffa.
Nato ad Arezzo nel 1623, Antonio Cesti cominciò ben presto la carriera di musicista, esibendosi come cantore nelle chiese cittadine. A soli 14 anni prese l’abito dei Minori Conventuali francescani, assumendo il nome di frate Antonio in sostituzione dell’originario Pietro, ed entrò nel convento di S. Francesco ad Arezzo, dove la sua presenza è documentata fino al 1643. Le informazioni sulla sua formazione musicale sono scarse: probabile che abbia studiato a Roma con Carissimi e Abbatini, ma nessuna fonte ci conferma la sua presenza in gioventù nella città pontificia. Trasferitosi nel convento francescano di Volterra, ricoprì i ruoli di organista, di maestro di cappella della cattedrale, di maestro di musica del seminario e, contemporaneamente, quello di organista in S. Croce a Firenze. Al periodo volterrano risale l’amicizia con il commediografo Ricciardi e con il pittore Salvator Rosa; con quest’ultimo intrattenne un’intensa corrispondenza, importante per la ricostruzione di molti particolari della sua vita.
Nel 1653, grazie all’interessamento di Mattias de’ Medici, fu assunto alla corte di Innsbruck, presso l’arciduca Ferdinando Carlo del Tirolo, in qualità di maestro di cappella della camera, ruolo confezionato apposta per lui, che comportava la responsabilità dei musici di camera, la composizione di musica di intrattenimento e la supervisione del teatro d’opera di corte. Se si eccettua una breve parentesi romana presso la cappella pontificia, il Cesti rimase a Innsbruck fino al 1665, quando, in seguito all’estinzione del ramo tirolese, si spostò a Vienna col suo librettista Sbarra. Alla corte imperiale fu nominato "cappellano d’onore" e "intendente delle musiche teatrali dell’imperatore": la carica musicale più importante dell’epoca in Europa. Emblema di questo periodo è "Il pomo d’oro", opera monumentale in cinque atti (l’esecuzione con tutti i ballabili, gli intermezzi, i cori, i recitativi, le arie e le diecine di cambi di scena previsti supera certamente le dieci ore di spettacolo), composta in occasione del matrimonio di Leopoldo I con l’Infanta di Spagna.
Rientrato alla fine del 1668 a Firenze, vi morì l’anno seguente. Nei drammi austriaci l’abbondanza di mezzi a disposizione del compositore si dispiega appunto specialmente nel "Pomo d’oro", che prevede un cast di oltre venti personaggi e che nel 1668 fu rappresentato in un teatro appositamente costruito per le nozze dell’imperatore. La figura e l’opera del Cesti sono stati oggetto di un Convegno Internazionale di Studi, svoltosi nei giorni 26 e 27 aprile 2002, ad Arezzo, città natale del musicista. Questa iniziativa è stata possibile grazie al Rotary Club e all’Associazione Gamut, con il patrocinio della Società Italiana di Musicologia e del Comune di Arezzo: ne è scaturito un interessante volume di atti. La fama postuma del Cesti e la conoscenza diretta che di lui ebbe il Settecento sono legate alla feconda produzione di cantate da camera a una o due voci, comprendente 61 lavori scritti per basso o soprano e basso continuo: nonostante queste composizioni fossero eseguite e diffuse già fra i contemporanei, non sono state mai pubblicate. Musicista europeo, il Cesti ha composto due opere in onore della Regina Cristina di Svezia: l’"Argia" in occasione dell’abdicazione della sovrana e "La magnanimità di Alessandro" per celebrarne l’umanità e la grandezza d’animo nel circolo di intellettuali che ella aveva raccolto intorno a sé a Roma.
Il Cesti, definito da Salvator Rosa "il più grande di quanti compongono musica oggi in Europa", ha diretto una compagnia stabile a Innsbruck e a Vienna, come risulta dalle undici lettere autografe da lui scritte nel periodo in cui operò a Vienna e recentemente pubblicate dal Seifert. Nel "Pomo d’oro" il tema del mito di Paride e della discordia tra le dee è un pretesto per continui riferimenti alla realtà politica del regno asburgico e alla glorificazione dell’imperatore Leopoldo I. L’opera acquista così una precisa valenza storica e politica. Inventore della cosiddetta "aria di uscita" e teorico del "decoro" dei personaggi regali, nonché melodista di schietta vena, il Cesti è il maggior compositore di melodrammi della seconda metà del Seicento.
Alla vita disordinata e ad alcune "zingarate" in cui ebbe complice l’amico Salvator Rosa, si deve certamente il soprannome di "Marc’Antonio" col quale è stato a lungo designato per dileggio, perfino in età moderna. Nel 1650 infatti, a seguito della denuncia di un superiore dell’ordine, abbandonò il monacato e divenne prete secolare, non rinunciando tuttavia a comportamenti disinvolti: amava esibirsi come cantante e attore in opere sue e di altri compositori, ed ebbe varie avventure amorose, fra cui una relazione stabile con la cantante fiorentina Anna Maria Sardelli, cosa che non gli causò tuttavia grossi fastidi grazie alla protezione dei Medici. Sulla sua morte grava il sospetto di avvelenamento: è incerto se per questioni di rivalità artistica o amorosa. Una curiosità. Sebbene il suo vero nome, Pietro Antonio, figuri correttamente in numerose targhe ed epigrafi a Innsbruck e a Vienna, ad Arezzo, sua patria, la targa della strada a lui dedicata (al tempo un budello a fondo cieco promosso a grande strada da un fortunato piano regolatore: è il prosieguo di via Piave dopo l’incrocio con via Trasimeno) reca ancora lo spregiativo Marc’Antonio. Un oltraggio al quale la "Città della Musica" dovrebbe porre fine!