Arezzo, 14 febbraio 2020 - Nel mare magnum delle accuse di Banca Etruria, era l’unico filone nel quale se l’erano cavata senza danni: l’ostacolo alla vigilanza di Banca d’Italia. Era, appunto, all’imperfetto, perchè adesso Giuseppe Fornasari, ex presidente, e Luca Bronchi, ex direttore generale, sono stati condannati anche per quello, in assoluto il primo capitolo per il quale era arrivata una sentenza e anche il primo per il quale giunge il verdetto d’appello.
Un anno e un mese a Fornasari e un anno e un mese a Bronchi, stabiliscono i giudici di secondo grado fiorentino in un verdetto che viene letto poco dopo l’ora di pranzo, a rovinare la digestione dei protagonisti. La pena è comunque sospesa coi benefici di legge, di sicuro le difese ricorreranno in cassazione.
Resta, per ora, la provvisionale stabilita dalla Corte in favore di via Nazionale, che si era costituita parte civile e che si è battuta per la riforma della sentenza iniziale quanto la procura generale: 327 mila euro da pagare in solido. Viene così ribaltata la decisione del Gup Anna Maria Lo Prete, che nel dicembre 2016 aveva clamorosamente mandato assolti, contro le previsioni della vigilia, l’ex presidente, l’ex Dg e David Canestri, ex responsabile del Risk Management, prosciolto anche in appello, come aveva chiesto anche il Pm Domenico Manzione, che invece aveva sollecitato pene un po’ più pesanti per gli altri due: due anni e 4 mesi per Fornasari e un anno e 8 mesi per Bronchi. I giudici presieduti da Angela Maria Fedelino non graduano però le responsabilità fra ex presidente ed ex dg, infliggendo ad entrambi la stessa pena.
E’ una vittoria postuma anche per la procura di Arezzo, in particolare per il procuratore capo di allora Roberto Rossi e per il Pm Julia Maggiore, che avevano sostenuto direttamente l’accusa dopo aver istruito il caso. Dopo l’assoluzione erano stati loro a firmare il ricorso in appello. Dal terzo piano di Palazzo di giustizia, però, nessuno vuol commentare.
Fonti giudiziarie si limitano a commentare amaramente come una procura che a questo punto ha sempre avuto ragione sul crac, sia stata decapitata proprio per presunte manchevolezze di Rossi nell’inchiesta Etruria. Le tesi con cui il Pm Manzione ha ottenuto la doppia condanna sono infatti sostanzialmente le stesse dei Pm aretini.
Due i capi di imputazione. Il primo riguardava la sottovalutazione dei crediti deteriorati, con il ritardo nell’appostare a perdita di bilancio i prestiti ammalorati per decine se non centinaia di milioni, con ciò impedendo a Banca d’Italia di avere un quadro completo di un istituto in gravissima difficoltà finanziaria. La seconda accusa era poi relativa alla cessione dell’immobiliare Palazzo della Fonte, in cui Bpel aveva raccolto il proprio patrimonio edilizio.
Fu venduta, è l’ipotesi, ad acquirenti finanziati in parte dalla stessa Etruria con prestiti a società satellite. Prassi non illecita in se stessa, ma che non fu comunicata a via Nazionale. Altro ostacolo alla vigilanza. Non a caso, proprio l’ispezione di Bankitalia guidata da Emanuele Gatti impose a Bpel di cancellare i benefici dell’operazione dal conto economico.
Gatti rimase in banca per quasi un anno, fra il novembre 2012 e il settembre 2013, riscontrando irregolarità che indussero via Nazionale a trasmettere in procura la sua relazione ispettiva. Fu quindi il procuratore Rossi, nel marzo 2014, a ordinare la perquisizione della sede centrale, con gli avvisi di garanzia a Fornasari, Bronchi e Canestri sfociati nel processo. Per ex presidente ed ex Dg un altro colpo al cuore e non è detto che sia finita. Oltre alla condanna a 5 anni per bancarotta, c’è il processo per falso in prospetto sulle subordinate azzerate che incombe.