
Un gruppo di suore
Arezzo, 31 agosto 2018 - E’ STATA la rabbia di una dipendente assunta col contratto a termine, rimasta a bagnomaria e infine licenziata a inguaiare le quattro suore dell’ordine di Santa Elisabetta per le quali il Pm Julia Maggiore ha chiesto il processo: truffa aggravata ai danni dell’Unione Europea, in sostanza i pacchi destinati agli indigenti utilizzati nelle cucine che servivano i pasti a tre case di riposo con congrua retta a carico degli anziani ospiti.
Eh sì, la Finanza non è arrivata per caso, il 15 novembre 2017, nelle cambuse delle Rsa di Arezzo (via XX settembre), Policiano e Pratovecchi in cui le suore adoperavano per cucinare la pasta, i pelati e l’olio distribuiti dalla Croce Rossa su mandato di un fondo Ue insieme a quelli che compravano normalmente al supermercato, con tanto di ricevuta, come ha tenuto a precisare una delle monache indagate, interpellata da La Nazione.
No, dietro c’è una storia un po’ più torbida. Quella di un’italiana assunta con un contratto a termine che continua a lavorare in via XX Settembre anche dopo la scadenza. Lei vorrebbe il tempo indeterminato e per questo si rivolge agli inquirenti con un esposto-querela. Il resto viene di conseguenza, fino al blitz delle Fiamme Gialle della compagnia di Arezzo. Finisce male per tutte: le suore indagate e la dipendente licenziata qualche mese fa nell’ambito di un ridimensionamento del personale.
BENE, MA chi sono le religiose sotto inchiesta? La legale rappresentante dell’ente ecclesiastico «suore francescane di Sant’Elisabetta» e le tre responsabili delle case di riposo di Arezzo, Policiano e Pratovecchio, due italiane (fra cui un’ottantenne) e due indiane, ancora giovani, che a malapena parlano l’italiano. Almeno una di loro aveva chiesto di essere interrogata, ma lo ha fatto troppo tardi, quando il Pm Maggiore aveva già firmato la richiesta di rinvio a giudizio.
In compenso, a nome di tutte le consorelle, l’avvocato Fabio Vezzosi ha presentato una memoria difensiva in due punti. Innanzitutto, sostiene, le suore indiane, prive di qualsiasi reddito, avevano diritto a ricevere i pacchi della Croce Rossa. Che poi li abbiano mescolati con il vitto delle case di riposo fa parte soltanto di una confusione dovuta al fatto che la cucina era unica per tutti e loro, straniere, parlavano male la lingua e non conoscevano le norme. Manca insomma il dolo della truffa aggravata contestata dalla procura. E poi, ricorda ancora la memoria, ogni casa di riposo fa storia a sè e quindi non c’è concorso nel reato fra le monache.