FILIPPO
Cronaca

Baracche, polvere e solitudine. Il campo profughi dimenticato

Gli esuli istriani e dalmati per sfuggire al comunismo si sono rifugiati per quasi vent’anni a Laterina. Un libro li racconta

Baracche, polvere e solitudine. Il campo profughi dimenticato

Boni

Le baracche di legno in fila indiana, una dietro l’altra. Le finestre senza i vetri, solo le coperte per coprire il gelo. Polvere e solitudine irreversibile, senso di smarrimento, radici perdute. I profughi del campo di Laterina si sentivano come pellerossa in una riserva. C’era anche il filo spinato a farli sentire al di là di una barriera che sembrava non avere fine. E dentro, per gli esuli dalmati dimenticati, ancora oggi ci sono le loro storie perdute che, come spettri, aleggiano in questo fazzoletto di provincia di cui si parla troppo poco. Quegli esuli erano coloro che nell’immediato secondo Dopoguerra si rifugiarono in Italia per sfuggire al comunismo jugoslavo e alla sua opera di snazionalizzazione nelle terre della Venezia Giulia e Dalmazia, occupate dalle truppe di Tito e in seguito assegnate dalle potenze vincitrici alla Jugoslavia: questo laboratorio multietnico che esploderà dopo il crollo del muro nel sangue dei conflitti balcanici degli anni Novanta. Le loro storie, grazie al grande studio effettuato da Elio Varutti con l’aiuto di Claudio Ausilio, sono state cucite con sapienza e tenerezza in un libro edito da Aska "La patria perduta, vita quotidiana e testimonianze sul centro raccolta profughi giuliano-dalmati di Laterina 1946-1963" e oggi appartengono alla memoria collettiva.

La vicenda del campo profughi di Laterina è infatti stata solo accennata nei libri fino a oggi. Questo volume rappresenta senza dubbio una novità. Dal 1941 al 1943, sotto il fascismo, questo fu un campo di concentramento per prigionieri inglesi, sudafricani e canadesi. Sottoalimentazione e scarsa igiene nelle baracche provocarono nei 2500-3000 prigionieri varie malattie come dissenteria e tifo. Poi, per un anno, divenne un reclusorio sotto la sorveglianza nazista, ma dopo la Liberazione del Valdarno, avvenuta nel 1944 grazie alla VIII Armata britannica, si trasformò in un campo di concentramento per tedeschi e repubblicani della Rsi catturati al Nord fino al 1946. Da allora fino al 1963, funzionò come campo profughi per italiani in fuga dall’Istria, Fiume e Dalmazia (oltre 10mila persone), terre assegnate alla Jugoslavia col trattato di pace del 1947.

Sono loro gli italiani della patria perduta. Patirono il freddo e la fame. Misero in discussione la propria esistenza, persero tutte le certezze. Tra i più anziani di loro ci fu un alto tasso di suicidi. A Laterina giunsero pure alcuni sfollati dalle ex colonie italiane. Il libro ricostruisce dettagli storici fondamentali: dalle testimonianze sui primi anni del Crp aretino alle storie dei più piccoli, che qui devono studiare e seguire il catechismo, costruirsi una vita a prescindere dal fiume della storia. C’è la storia della fuga dei Tardivelli, da Fiume a Laterina, nel 1948. Ci sono i Bazzara di Parenzo, tra il maresciallo Harzarich e l’esilio in Australia. Poi ci sono i Pettener da Pola a Laterina e pure la storia di quel profugo che volevano gettare dalle mura del paese e fu salvato da un comunista. Dal terzo capitolo in poi invece si prendono in rassegna i cuccioli, ovvero i più piccoli, che furono costretti ad andare a scuola nel campo e che qui crebbero tra gli stenti. Ragazzi al di là del filo spinato mentre l’Italia del boom industriale al di là di quella barriera si trasformava da mezzadrile a potenza industriale.

Il libro passa in rassegna anche i tanti campioni di sport e artisti passati dal campo: i Mocenni di Pola, gli Scocco di Udine, i calciatori da Fiume a Laterina e quindi la Fiumana, squadra di calcio del Quarnaro. E come potevano mancare gli angeli custodi nel campo? I preti. I cresimati da monsignor Mignone, il vescovo, furono addirittura 403 e in questo fu incredibile l’opera di misericordia svolta dal parroco, don Bruno Bernini.

Non esisteva fino a oggi un libro che trattasse in modo specifico questi anni di vita quotidiana e di incontro-scontro con la popolazione locale, fino alla completa integrazione sociale, mediante qualche matrimonio misto e, soprattutto, col lavoro e con l’assegnazione delle case popolari ai profughi.

Colpevolmente si parla troppo poco del dramma che questo popolo visse. I profughi istriani, fiumani e dalmati, sono vittime di una vicenda storica ignota ai più, vittime della loro stessa mitezza, senza neppure il conforto di sapere che altri conoscano la loro storia. Se è impossibile trascorrere 24 ore in molti Paesi del mondo senza imbattersi almeno in una notizia, una lapide o altro che ricordi l’Olocausto, per loro è quasi impossibile trovare un interlocutore attento e sensibile alla loro tragedia di profughi giuliano-dalmati. Soffrirono, persero le radici e rischiarono di essere dimenticati. Ecco perché questo libro ha in sé un valore immenso di una memoria che colma un vuoto e garantisce giustizia riparativa all’oblio e al dolore. Che resta lì, sotto traccia. E non se ne andrà.