
di Silvia Bardi
Ci siamo chiesti per anni se la canzone d’amore più bella fosse "La cura" o "E ti vengo a cercare". Ma anche dove fosse quel benedetto cinghiale bianco e che vedute premonitrici avesse quando pubblicò il vinile "Pollution" del 1972 tra contaminazioni e sperimentazioni che ce lo rendevano alieno. E se da ragazzi capivamo ancora forse poco la complessa struttura con cui scriveva le sue canzoni e le sofisticate citazioni, complice l’amicizia con Manlio Sgalambro, di certo nessuno può dire di non aver conservato una traccia personale indelebile di quanto Franco Battiato ha cantato, detto, scritto, fatto.
L’ultima volta ad Arezzo c’è stato il 9 settembre 2011 all’Anfiteatro, tutto esaurito manco a dirlo. Lui seduto su un baule in un palcoscenico foderato di tappeti. Era l’anno del tour "Up patriots to arms", due ore di successi in chiave rock. Una tappa della tournée che Walter Fioroni, della Sipario Management, riuscì a strappare per portarlo ad Arezzo, nella stessa estate in cui a Firenze aveva trionfato Gianna Nannini e Jovanotti aveva riempito il palasport di Perugia.
Pensarci adesso fa solo nostalgia. Come quella scatenata dalla morte di Battiato. Ma il ricordo più bello, la serata più suggestiva, unica in assoluto, è stata la notte che Battiato ha voluto regalare a duemilacinquecento persone non paganti al Santuario della Verna il 3 luglio 1996, arrivate lassù sin dalle prime ore del pomeriggio.
Invitato dalla Fondazione Giuseppe e Adele Baracchi aveva composto per l’occasione la sua "messa arcaica", la serata concerto "Le voci del silenzio" per la quale l’artista aveva lavorato sei mesi, ringraziando addirittura per l’opportunità che gli era stata concessa.
Alle sue spalle un’orchestra di 72 elementi dei Virtuosi Italiani, al suo fianco solisti di primo piano come il mezzosoprano Akemi Sakamoto, il soprano Maricia Rossi, il basso Luca Ferracin, il coro Athesis Chorus diretto da Filippo Maria Bressan, il "suo" pianista Carlo Guaitoli e alle tastiere Filippo destrieri e Angelo Privitera con l’amico Manlio Sgalambro a leggere il "Cantico di Frate Sole" di San Francesco. Un’emozione così intensa da fargli confessare che non avrebbe mai pensato né sperato di poter tenere un concerto in un luogo così suggestivo: "Salire alla Verna da sempre luogo di raccoglimento e devozione spirituale è cercare un centro di gravità permanente, un spunto di riferimento alla nostra vita confusa e vuota.
Perché cercare il silenzio, sentirne la ricchezza e l’essenzialità è il modo migliore per mettere in comunicazione la propria anima con l’anima della terra". Ci vollero otto anni per reincontrarlo il 22 luglio 2004 all’Anfiteatro con il concerto "Illuminazioni sulla via di Damasco", pochi mesi prima dell’uscita del suo album "Dieci stratagemmi" di cui regalò un’anteprima e tutta l’atmosfera orientale e araba che ormai ci aveva abituati a sentire familiare, anche qui con il filosofo Sgalambro e il pianista Guaitoli, in un Anfiteatro che ricorderemo per sempre come la sua scenografia perfetta. "A volte è proprio tornando indietro nel tempo che il futuro diventa più chiaro" ha detto spesso. Sì, ora è chiaro. Dopo di lui, il silenzio.