Bella mostra a Casa Masaccio, Centro per l’arte contemporanea di San Giovanni

“Melancolia della resistenza: Béla Tarr / Adrian Paci” in rassegna fino al 30 giugno.

Bella mostra a Casa Masaccio

Bella mostra a Casa Masaccio

Arezzo, 22 maggio 2024 – La rassegna Esporre il cinema che annualmente prende la forma di una mostra, in svolgimento a Casa Masaccio di San Giovanni,  connessa al Premio Marco Melani, è di volta in volta dedicata al regista insignito del premio: quest’anno è stata la volta di Béla Tarr. Bastano due dichiarazioni di registi profondamente diversi, ma unanimemente riconosciuti a livello internazionale, a giustificare l’attenzione di cui è oggetto l’opera del grande regista ungherese. La prima di Martin Scorsese: “Béla Tarr è uno degli artisti più audaci del cinema” e l’altra di Gus Van Sant: “I film di Béla Tarr mi hanno segnato profondamente e dopo aver rivisto i suoi ultimi tre film, […] mi trovo a cercare di riconsiderare la grammatica cinematografica e l’effetto che la storia ha avuto su di essa […] Le opere di Béla sono organiche e contemplative […] così vicine ai ritmi reali della vita che sembra di assistere alla nascita di un nuovo cinema. Tarr è uno dei pochi registi veramente visionari”. Tempi lunghi, bianco e nero stilizzato, sofisticati piani-sequenza e fusione degli spazi caratterizzano il suo cinema. In termini di contenuto il regista è passato da una descrizione psicologica e sociale ‘realistica’ a una ricerca metafisica e allegorica che ha qualche tratto in comune con quella di Andreï Tarkovski ma, al contempo, se ne distanzia poiché rifiuta qualsiasi idea di grazia salvifica. Nel corso degli anni l’opera di Tarr ha ricevuto numerosi riconoscimenti ed è stata oggetto di varie retrospettive museali: dal Moma al Centre Pompidou.

Fra i numerosi premi segnaliamo il Prix Caligari al Festival di Berlino nel 1994 per il film-fiume di oltre sette ore Satantango, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore László Krasznahorkai (trad.it. Bompiani) suo consueto collaboratore per la sceneggiatura in tutti i film successivi sino a Il cavallo di Torino. Quest’ultimo - Orso d’argento al Festival di Berlino 2011- è una favola nera sulla fine dei tempi e, a dire di Béla Tarr, rappresenta il suo ultimo film: “Sì davvero è il mio ultimo film. Per una ragione che forse non si vede ma è veramente così […] Di film posso farne ancora… Di ripetermi sarei anche capace ma non voglio… non c’è ragione. Il pubblico lo rispetto, come rispetto il mio lavoro. E sento che il lavoro è terminato, la casa è finita, e non c’è ragione per fare ancora altro, […] voglio proteggere il mio lavoro – anche da me stesso”. Dopo l’‘abbandono’ della regia Béla Tarr è professore alla Film Akademie di Berlino e contribuisce a fondare la film.factory di Sarajevo. Nel 2017 realizza Till the End of the World una grande mostra per l’Eye Filmuseum di Amsterdam, che si colloca all’incrocio tra un film, un set teatrale e una installazione d’arte. Poiché nei suoi film Tarr ha sempre presentato il lato negativo del progresso, non sorprende che anche in questa mostra si sia pronunciato contro il trattamento disumano di migliaia di migranti e rifugiati che cercano di dare alla loro vita una dignità che, nel suo paese, viene loro negata.

Nel 2019 con Missing People torna a misurarsi con un’esperienza espositiva nel contesto del Wiener Festwochen attraverso un’opera site-specific di ‘expanded cinema’ che rappresenta il passo successivo del nuovo percorso intrapreso dopo il suo autoproclamato ritiro dal cinema. “Non so cosa sia -ha dichiarato- ma so che questo non è sicuramente un film, non è una mostra, non è teatro, non è un concerto, forse è una specie di poesia visiva sulle persone scomparse”. Sulla scia della precedente edizione anche la mostra di quest’anno Melancolia della resistenza: Béla Tarr / Adrian Paci, a cura di Saretto Cincinelli, si prefigge, come si evince dal titolo (‘rubato’ ad un romanzo di László Krasznahorkai) di porre in dialogo la ricerca di Béla Tarr, indiscussa figura di culto del cinema contemporaneo, con quella di un artista di riconosciuto prestigio come Adrian Paci. Non stratta solo di porre a confronto le opere di due artistiche, in perfetta autonomia, si sono spesso misurati su analoghe tematiche sociopolitiche, a cominciare da quelle di migranti e homeless ma anche di ipotizzare, sia pur sottotraccia, relazioni tra due visioni del mondo autonome ma non totalmente divergenti. Visioni che trovano un elemento di contatto nel considerare -sulla scorta di Deleuze- l’atto creativo come un atto di resistenza. Da una parte l’opera di un maestro del cinema che ha fatto di un sofisticato uso del piano sequenza e della fusione degli spazi un modo per eludere ogni visione rettilinea e teleologica della storia e, dall’altra quella di un artista che, nell’attualizzare una forma-sia tramite il video che la pittura- si propone di mantenere vivo l’elemento della sua potenzialità sin dentro al risultato. Due ricerche che mostrano come la ‘finzione’ artistica, lungi dall’oscurare la realtà, abbia in sé il potenziale di riorganizzare il dominio della visibilità, e la capacità di svelarne le strutture profonde. Casa Masaccio, ospita alternandole di sala in sala, in un percorso parallelo, le opere dei due artisti. La mostra inizia al piano terra con la proiezione di Prologo, 2004 di Tarr e Centro di permanenza temporanea, 2007 di Paci, due brevi ma intensi film, che -con il loro sguardo disincantato- funzionano, come una sorta di ouverture plurale dell’intera operazione. Segue, al primo piano, la proiezione di una esemplare sequenza da Perdizione, 1987 di Béla Tarr che, introdotta da una semplice melodia molto ritmata, alterna lembi di muro decrepiti e tre gruppi di personaggi, immobilizzati alle porte di una sala da ballo con lo sguardo fisso sull’esterno e una straordinaria e recente videoinstallazione a due canali The Wanderers, 2021, di Paci che si accompagna ad alcune sue opere pittoriche e fotografiche ed a She,2008, una serie di incisioni che -per la reiterazione del soggetto e la disposizione spaziale- ricordano una sequenza cinematografica.

Com’è noto molti dipinti dell’artista derivano dall’elaborazione di fotogrammi di film amatoriali o d’autore (molto conosciuta la serie tratta dal Decameron di Pasolini). L’uso di immagini esistenti come soggetti dei quadri diventa, per Paci, un’occasione per analizzare il ritiro dell’autorialità soggettiva dalla pratica pittorica e per esplorare l’enigma e l’ambiguità dell’immagine. In una recente conversazione con Alessandro Rabottini, l’artista ha dichiarato: “Quando si seleziona un fotogramma da una storia più ampia, in un certo senso lo si salva dal suo unico ruolo di portatore di informazioni: lo si mette in uno spazio di contemplazione, si apre una possibilità di dubbio e di complessità […] la pittura permette di staccare quell’immagine dalla narrazione e di creare un piccolo spostamento, che è proprio lo spazio all’interno del quale quell’immagine può vibrare e respirare”. I soggetti dei suoi dipinti, che mostrano invariabilmente momenti di vita quotidiana, sono realizzati tramite pennellate vibranti, che tendono a trasformare le figure in presenze fantasmatiche. Nella grande sala al secondo piano, la simultanea messa in spazio di alcuni piani-sequenza di Tarr offre, infine, nella compresenza, la possibilità di una inedita ‘lettura’ di due figure topiche del suo cinema: la linea e il circolo. La prima rappresentata da due esemplari sequenze tratte rispettivamente da Il cavallo di Torino,2011 e Perdizione, 1987 e la seconda, da due versioni della lunga camminata di Estike in Satantango, 1994,il cui tracciato lineare mira a rompere la circolarità del racconto.