Santori
Finalmente la Chimera: lei, sempre lei, la "chimera" degli aretini, l’oggetto dei desideri custodito a Firenze. Ma con tutti i suoi segreti e i suoi misteri alla luce del sole. La "Chimera com’era"", riprendendo il titolo del libro nel quale Massimo Gallorini ha rivelato tanti segreti del celebre bronzo, emersi dai lavori preparatori della copia che troneggia in Piazza della Stazione, porgendo al visitatore che giunge ad Arezzo col treno un saluto che viene dagli abissi del tempo. Copia perfetta, in quanto ottenuta mediante preliminare scansione 3D dell’originale, realizzata presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, stampata in 3D e fusa in bronzo a cera persa, secondo i metodi antichi (le quattro copie esistenti in città, le due dei giardini della stazione, quella di Porta S. Lorentino e quella di Palazzo Cavallo sono per varie ragioni non corrette!). Il progetto "Chimera com’era" - che ha visto impegnato il Rotary Club Arezzo per oltre sei anni, per impulso dello stesso Gallorini - ha rivelato i segreti del “mostro”, ribaltando le opinioni che si erano venute formando nel corso dei secoli. Nel suo libro Gallorini ha coniugato la sua esperienza di archeologia sperimentale con l’attenta lettura di un fondamentale saggio inglese: Myth, Allegory, Emblem the many lives of the Chimera of Arezzo di Cianferoni, Iozzo, Setari (Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Toscana – 2012).
Fu il Vasari a far portare a Firenze il bronzo e a convincere il Duca che poteva essere il simbolo del suo ruolo come sovrano capace di vincere anche le "Chimere" più pericolose che minacciavano il suo governo. La perplessità del Duca era dovuta al fatto che il leone era il simbolo di Firenze fin da quanto negli anni fra il 1418 e il 1429. Donatello ne aveva collocato in Piazza della Signoria una rappresentazione ideale in pietra serena: il famoso Marzocco. E non poteva essere un leone morente.
Ora sappiamo che la Chimera, nonostante le ferite, non era morente, come si è continuato a credere, perchè durante la dettagliata analisi posturale e morfologica, è apparso evidente il turgore delle vene che, realisticamente rappresentato, è quello di un corpo ancora vigoroso e reattivo, che si appresta a scattare per difendersi.
La clinica veterinaria ci dice che un animale di grosse dimensioni, se è in punto di morte per ferite e perdita di sangue ha un crollo di pressione e non certo le vene gonfie! D’altra parte le zampe della Chimera sono in tensione e la posteriore sinistra, appena sollevata, fa ipotizzare che forse stava cercando una diversa posizione di difesa/attacco. Il muso della belva è ancora fiero e in parte aggressivo; un altro particolare del massimo interesse è che è rivolto non troppo in alto e non certo verso Bellerofonte sul Pegaso come si è sempre pensato: il muso avrebbe avuto differente prospettiva. Ma allora, la Chimera faceva davvero parte di un gruppo bronzeo estremamente complesso? Alcuni studiosi, com’è noto, lo negano, ma l’ipotesi tradizionale è avvalorata dalla presenza delle ferite, che sono tre perché alle due ben note (quella passante sul collo della capra e quella sul gluteo), se n’è aggiunta un’altra: una ferita cranica finora mai osservata con la dovuta attenzione e fatta notare a Gallorini da Mario Iozzo, già direttore dell’Archeologico di Firenze. Questa ferita è dovuta alla cuspide di una lancia che si è persa probabilmente fin dal momento del recupero. Tutto depone quindi per la struttura del gruppo formato dal rapporto dinamico e drammatico fra la belva e il suo uccisore. E qui sopravviene un’altra scoperta clamorosa, che ribalta l’interpretazione finora accreditata del rapporto fra i due elementi del gruppo. L’analisi della ferita dimostra infatti un’inclinazione della lancia con un angolo di 38°, non compatibile con un colpo vibrato dall’alto. Il cavallo doveva pertanto trovarsi a terra, sullo stesso piano della Chimera, e per quanto riferito in precedenza la Chimera non poteva guardare Bellerofonte negli occhi.
Ben più clamorosa è poi la scoperta di cera carbonizzata, dovuta a ceri spenti e riaccesi più volte, presente nelle fauci del mostro: doveva trattarsi della ricerca di un effetto evocativo dato dall’illuminazione degli occhi che in quel caso potevano essere solo di ambra traslucida, particolare accennato in "La Chimera di Arezzo (Mibac-Enea – Soprintendenza, 1992"", p. 54) e realizzati da Gallorini con una paziente ricostruzione di archeologia sperimentale. Il che fa pensare ad un impiego anche rituale dello straordinario gruppo scultoreo.
L’analisi di Gallorini, confermata dagli esami "rx" realizzati dall’Enea, rivela anche un particolare relativo al rapporto fra la capra e la coda ofida: è questa che regge il corno e non viceversa come ipotizzato nelle critiche al settecentesco restauro del Carradori. Infatti dalle radiografie si è potuto dimostrare che la coda in bronzo pieno è innestata nel moncone rimasto con una tecnica che la rende eccezionalmente stabile; e quindi il serpente regge il moncone del corno sinistro che era in pessimo stato di conservazione. Molte altre sono le considerazioni ma una risulta di ineccepibile fondatezza e inedita: la Chimera, così come ci è stata consegnata dal restauro del Carradori, è in perfetto rapporto aureo! Tutto questo e tanti altri particolari hanno alimentato fino ai giorni nostri un mito che ha rivelato oggi molti dei suoi misteri.