di Alberto Nocentini
Ogni provincia d’Italia, o quasi, ha un termine d’uso locale e a volte più di uno per indicare quella fascia d’età dai limiti non ben definiti, che va dall’infanzia alla giovinezza e corrisponde grosso modo al significato di ragazzo. L’aretino ha la coppia cittocitta, che condivide con Siena e va ben oltre i confini della provincia: a nord arriva fino a Incisa Valdarno e a sud si spinge fino alla Maremma. Il termine ha una vitalità sorprendente e riaffiora anche a distanza, p.es. nel piemontese cit, che tutti coloro che erano appassionati di ciclismo ai tempi di Coppi e Bartali ricorderanno come soprannome di Nino Defilippis, un campione minore vincitore di molte corse in linea.
La sua origine ce la rivela proprio il dialetto piemontese, che accanto a cit annovera anche pcit, cioè toscanamente piccitto, che ha corrispondenze nelle regioni più distanti, come il friulano pizit e il siciliano piccittu, che significano semplicemente ‘piccolo’ in quanto equivalgono a piccino e sono formati da un’identica radice con un diverso suffisso.
Dunque il significato originario di citto era né più né meno che ‘piccolo, piccino’, abbastanza ovvio se si pensa a chi si riferisce. Meno ovvio, anzi decisamente insolito è il procedimento morfologico che da piccitto porta a citto: una sorta di decapitazione della parola che in grammatica si chiama “aferesi”. L’aferesi è largamente usata nei nomi propri per ottenere diminutivi: è così che da Giovanni si ottiene Vanni, da Fernando Nando e da Lorenzo Renzo. Ma è rara nei nomi comuni, anche se ne comprendiamo bene il funzionamento, che viene definito iconico perché riproduce nella lingua quello che si osserva nella realtà: a un oggetto di dimensioni ridotte, come è un ragazzo rispetto a un uomo, si fa corrispondere una parola di dimensioni ridotte, togliendole una sillaba. Si possono citare per l’aretino almeno altri due casi: lica ‘quantità minima’ da mollica o più esattamente da mulica, e luta ‘favilla’ da fialuta ‘fiamma’, anch’essa voce dialettale.
Poche parole hanno nel nostro dialetto un radicamento così profondo e un’applicazione così estesa: in bocca a un genitore el mi’ citto indica il figliolo e in bocca a un giovane la mi’ citta indica l’innamorata. All’estensione corrisponde l’antichità: citto e citta sono registrati nel Vocabolario Aretino di Francesco Redi, che sciorina anche i derivati cittino, cittarino, cittarello, cittarellaccio, e già nel XIII secolo nella Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo ricorre citolo con la consonante scempia e il suffisso -lo, che aveva all’epoca un valore diminutivo oggi non più sentito (ma Ristoro scriveva quando ancora l’italiano non si identificava col fiorentino).
Mi son sentito dire più d’una volta dai non aretini che citto e citta sono voci sgradevoli, quasi cacofoniche. Premesso che gli apprezzamenti estetici sulle parole sono soggettivi, ditemi che cosa c’è di sgradevole in questi versi di Alberto Severi, il Trilussa aretino: La storia d’ogni citto e d’ogni citta Solo ‘ntul core de la mama è scritta. E ditemi poi, a proposito di cacofonia, se al posto di citto mettiamo ragazzo, qual è la prima rima che vi viene in mente.