ATTILIO
Cronaca

D’Annunzio e Dante "aretini": i poeti paralleli

Riflessioni a margine della mostra di Poppi sul Casentino nella Divina Commedia. Anche i luoghi sono gli stessi, come Romena

Attilio

Brilli

Il Casentino viene evocato da D’Annunzio in una visione frammista di nubi e di fantasmi colta dal loggiato di Santa Maria delle Grazie di Arezzo (nella serie delle Città del Silenzio): "Ove sono Uguccion della Faggiuola e il cavalier mitrato Guglielmino?" si chiede il poeta, "Non vedo Certomondo e Campaldino, né Buonconte forato nella gola". In pochi versi è genialmente condensata la storia del Casentino medievale, tema di una piccola mostra ospitata attualmente nel Castello di Poppi: Il Casentino nella Commedia di Dante, primo esempio degli Uffizi diffusi cari al direttore Eike Schmidt.

Una sensazione dominante accompagna ancora oggi i viandanti più accorti che percorrono questa valle, ed è quella di non farli sentire mai soli. C’è sempre qualcuno che sussurra loro all’orecchio: "Un favellio di voci fra chiesa e cortile, sacrestia e fienaia", le chiama D’Annunzio che sostò con Eleonora Duse per una stagione a Romena, dove compose le poesie più belle di Alcyone. Sono le voci dei protagonisti di drammatiche storie ricreate da Dante nella Commedia, la più impressionante delle quali è la morte di Buonconte da Montefeltro, condottiero di parte aretina, trafitto nella fatidica battaglia di Campaldino.

L’episodio permette al poeta di mettere in scena, oltre ad una mappa dei luoghi degna di uno stratega militare, la descrizione di un evento meteorologico tipico di questa "valle chiusa" che è appunto il Casentino. Ferito a morte, Buonconte lascia dietro di sé una lunga scia di sangue, tragica sineddoche della sconfitta degli aretini, andando a spirare alla confluenza dell’Archiano con l’Arno. A commento cosmico della sua morte, dense nubi addensate fra le giogaie di Catenaia e di Serra scatenano un furibondo uragano che ingrossa i fiumi facendoli tracimare. A livello allegorico, si tratta di angeli e demoni che si contendono l’anima del morente. Sospinta dal demonio, la furia delle acque scioglie le braccia in croce con cui Buonconte ha espresso il suo estremo ravvedimento, mentre il suo corpo rotola più volte nel fiume gonfio d’acque, fino a ricoprirsi di un sudario di fango che renderà vana ogni sua ricerca.

Si sa che l’esule Dante ebbe rapporti continui, anche se non privi di contrasti e di delusioni, con i conti Guidi. Ne è un esempio la seconda permanenza di Dante a Poppi, nel 1311, legata alla discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo. Ai suoi occhi, l’imperatore deriva l’autorità direttamente da Dio ed è colui che avrebbe dovuto ristabilire nel mondo l’ordine fondato sulla pace e sulla giustizia. Dopo l’incoronazione di Arrigo VII a Milano, il poeta scrive da Poppi ai Signori d’Italia una celebre epistola affinché accolgano l’imperatore come un dono della provvidenza divina. In un primo momento i conti Guidi si schierano a favore di Arrigo, tuttavia, allorché Firenze assume una decisa posizione anti imperiale, con un drastico voltafaccia i Guidi si pongono al loro fianco.

Da questa cocente delusione nasce l’invettiva contro la "misera valle" dell’Arno, un’invettiva imbastita di un metaforico bestiario che, dopo aver paragonato i casentinesi ai porci, si dilata all’intero corso del fiume, facendo degli aretini dei "botoli ringhiosi", equiparando i fiorentini a lupi famelici, i pisani a volpi scaltre e fraudolente. Ciò che conferisce un’inedita intensità all’invettiva è il coniugarsi delle allegorie animalesche con l’esattezza geografica nella descrizione del corso fluviale, con i suoi ponti, le gole buie e le luminose riviere.

A maggiore disprezzo per le città toscane anti-imperiali, Dante deriva i bestiali appellativi che affibbia alle loro popolazioni dagli stessi animali che, con ben altro intento, figurano negli stemmi e nei blasoni araldici delle singole città, famiglie e castelli, sia che si parli dei "porci" dal castello dei Guidi di Porciano, o dei "botoli" ringhiosi citati in un motto dell’emblema di Arezzo dove si dice che: "Spesso il cinghiale è tenuto a bada da un botolo".

Ma nella poesia resta pur sempre viva l’immagine rorida di una valle che ha accolto più volte l’esule. Con un abile giuoco di spaesamento, Dante la ripropone tramite l’idropico Maestro Adamo, il falsario mandato al rogo per aver adulterato il fiorino di Firenze su istigazione dei conti Guidi. Maestro Adamo racconta infatti di avere falsificato la lega aurea del fiorino proprio a Romena, e che le sue labbra riarse gli fanno ricordare per l’eternità "li ruscelletti" che discendono con "i lor canali freddi e molli" dai colli casentinesi per gettarsi nell’Arno.

Una visione di commiato, questa, che è tormentata per quanto riguarda il personaggio, eppure aprica e serena nella configurazione ambientale, lontana dalle tenebre tempestose e corrusche dell’altro Casentino, quello bellico di Buonconte travolto dalla piena dell’Arno. Sono due immagini complementari mediante le quali il Casentino trova il proprio compendio nella poesia tutelare di Dante, la cui voce ci sa ancora oggi trasmettere lo spirito della "valle chiusa", uno spirito che è antico e attuale allo stesso tempo.