Arezzo, 11 gennaio 2025 – Il quarto anno di specializzazione in medicina d’urgenza l’ha attraversato nella trincea del Covid. Il suo primo campo di battaglia, al San Donato. Nei giorni bui “imprigionata” nella tuta bianca per evitare il contagio e strappare persone alla furia del virus, ha vissuto l’isolamento ed ha imparato “la resilienza, non mollare mai, andare avanti nonostante le difficoltà. E cercare una soluzione alternativa”.
Oggi Sara Montemerani ha 36 anni, è un medico del pronto soccorso e del 118: da un anno e mezzo vola in elisoccorso per salvare vite, in una corsa contro il tempo. È una delle quattro donne medico del team Pegaso.
Dottoressa Montemerani perché ha scelto l’attività a bordo del Pegaso?
“Ho sempre avuto una passione per la medicina d’urgenza. L’attività in elisoccorso è compresa tra quelle del dipartimento dell’emergenza. Ho seguito corsi, mi sono preparata per poi affrontare il concorso nel 2023 che ho vinto insieme ad altri due colleghi. Formazione tecnica, poi il primo volo”.
Come è stata la prima esperienza?
“Molto forte, non si dimentica. Ti senti attraversata da una carica di adrenalina perchè sai di fare qualcosa di diverso rispetto al lavoro in pronto soccorso. Un’esperienza che ti dà tanto e ti resta addosso ogni volta, perchè ogni intervento è diverso da quello precedente”.
Cosa fa la differenza in quei momenti?
“Il lavoro di squadra che in elisoccorso è ancor più determinante: oltre a medici e infermieri nel team ci sono esperti del soccorso alpino e dell’aeronautica, tutti lavorano per il paziente e per lo stesso obiettivo. Non sei tu ma noi. Da solo non potresti fare nulla”.
Dal pronto soccorso del San Donato al Pegaso. Come ci è arrivata?
“Dopo aver vinto il concorso ho affrontato un iter formativo molto articolato, poi a bordo di Pegaso nella prima fase in affiancamento ad altri medici e a fine settembre 2023 il primo intervento. Nella mia formazione ha giocato un ruolo strategico il lavoro al pronto soccorso”.
Perchè?
“Ho avuto maestri eccellenti che hanno seguito e sostenuto me e i colleghi specializzandi: Giovanni Iannelli, Massimo Mandò ma anche anche per tutti gli altri professionisti che non ci hanno mollato un attimo, specie durante il Covid”.
Che trincea è stata e cosa le ha insegnato?
“È stata molto dura, specialmente nel periodo più complesso dell’emergenza pandemica, anche perchè eravamo “scafandrati“ e il rapporto con il paziente era ridotto ai minimi termini. Frequentavo il quarto anno di specializzazione in medicina d’urgenza e con i colleghi sono stata chiamata a dare una mano in ospedale. Avevo fatto il tirocinio in rianimazione e già allora mi ero innamorata del San Donato”.
Perchè?
“Ho lavorato con clinici che mi hanno insegnato tanto, e hanno dedicato tempo a noi studenti: non ci hanno mai lasciato soli. Ho imparato il valore del lavoro di squadra e testato sul campo la bellezza di un lavoro che ti fa sentire utile agli altri”.
C’è un caso che l’ha colpita tra i tanti interventi su Pegaso?
“Sì e non lo dimenticherò. Siamo intervenuti in una zona boschiva dove l’ambulanza non riusciva ad arrivare. Mi sono calata col il verricello insieme a un infermiere e quando siamo entrati in casa, abbiamo trovato una bambina in arresto cardiaco, anche se i genitori le stavano già praticando il massaggio in contatto con la centrale del 118”.
Cosa è successo?
“La bambina è stata intubata e con la somministrazione di alcuni farmaci si è ripresa, purtroppo è morta poche ore dopo al Meyer. Soffriva di una grave patologia dalla nascita: i genitori biologici l’avevano abbandonata per la gravità delle sue condizioni e un’altra famiglia ha scelto di adottarla pur sapendo che sarebbe arrivato quel giorno. La mamma l’ha seguita sul Pegaso e in ospedale. Quando attendevamo insieme l’esito degli esami lei ha ringraziato per il nostro intervento e mi ha detto: dottoressa non sia triste per come andrà. Mi sono sentita piccola di fronte a questo gigante d’amore e di coraggio”.