CAMILLO BREZZI
Cronaca

E.R. medici in prima linea nella Grande Guerra Malattie e ferite: l’apocalisse della trincea

Un libro di Caremani su come la sanità militare affrontò l’emergenza bellica che solo ad Arezzo costò 7 mila caduti su 60 mila mobilitati

Camillo Brezzi

Nel giro di neppure due mesi, nel territorio aretino si sono avute diverse iniziative legate alla prima guerra mondiale, a conferma che il tema richiama un forte interesse, anche a distanza di oltre un secolo. Lo scorso 1° novembre alla stazione di Arezzo ha fatto sosta per l’intera giornata il treno che rievocava il trasporto del Milite Ignoto, organizzato dal Comitato per la valorizzazione degli anniversari di interesse nazionale presso la Presidenza del Consiglio. Anche durante la sosta aretina (a dir il vero poco reclamizzata) centinaia di persone (molti ragazzi e bambini) l’hanno visitato e hanno compreso la drammaticità di quell’evento. Un mese fa, al Circolo Artistico, si è aperta una piccola mostra sugli Aretini alla Grande Guerra, curata da Piermario Bevivino, il quale utilizzando un prezioso materiale raccolto in tanti anni, documenti, cartoline illustrate, cimeli, articoli di giornale, foto di combattenti, elenchi dei caduti, ha offerto uno squarcio sul coinvolgimento dei cittadini del territorio nella Grande guerra.

In questi giorni è uscito poi un volume di grande interesse: Vivere e morire in trincea. Malattie, medicina e pandemia durante la Prima guerra mondiale (Arancia Publishing, 2021). L’autore, Marcello Caremani, non è uno studioso di storia (anche se le prime 50 pagine ci offrono una sintetica e precisa ricostruzione della Grande Guerra) ma un noto e stimato medico che ha ricoperto vari incarichi all’Ospedale di Arezzo, oltre ad essere apprezzato per il suo impegno civile. L’autore ricostruisce e si sofferma su alcune tipicità di quel conflitto: innanzitutto la novità rappresentata dalla guerra di trincea; il conseguente altissimo numero dei morti; infine, l’altrettanto tragica conseguenza per soldati o ufficiali colpiti, non dalle armi, ma dalle malattie che si propagarono al fronte come nel Paese.

Lo studio della guerra mondiale ha avuto varie fasi, a livello locale mi permetto di ricordare ancora l’interessante quaderno dell’Accademia Petrarca su Cesare Battisti e Arezzo, uscito due anni fa con la presentazione di Giulio Firpo e due saggi di Salvatore Mannino e Franco Cristelli. Tra i nuovi approcci della storiografia si è avuto un cambiamento anche nella identificazione di quella guerra: da Quarta guerra del Risorgimento a prima guerra mondiale, a Grande guerra. Negli ultimi anni gli studiosi hanno utilizzato il termine di Guerra totale, parafrasandolo dalla seconda guerra mondiale. Anche Marcello Caremani parla di Guerra totale e lo può fare a ragione proprio per le novità che presenta in questo studio in un continuo dialogo e raffronto tra le trincee con i soldati quali primi attori, e l’accurata analisi sul fronte interno, con la popolazione e l’apparato sanitario che viene costruito.

Oltre ai milioni di morti (per l’Italia saranno 600.000. di cui 7 mila solo in provincia di Arezzo, ’11,5 per cento dei 60 mila enuti alle armi)), vanno ricordati i numeri superiori per quanto riguarda i feriti. Inquadrando questa situazione nel contesto della nuova guerra, la guerra di trincea, Caremani sottolinea come "La medicina di allora non rispondeva, come oggi, a esplicite esortazioni etico-morali: in guerra bisognava cucire, curare, salvare perché serviva carne da macello, masse di uomini da mandare all’assalto e da usare come argine per fermare lo “straniero”. I medici che allora partirono per il fronte furono nella maggior parte giovani studenti, dove l’unico vero tirocinio fu quello che fecero sui campi di battaglia".

La necessità fu quella di costituire una sanità militare più moderna, capace di adattarsi alle nuove condizioni di questa guerra totale. Ecco quindi un "ruolo da protagonisti" che assumono i medici (a differenza delle guerre precedenti), i quali poterono "sperimentare e migliorare nuove terapie, nuove tecniche e nuove procedure d’intervento, la sanità militare italiana si distinse rispetto agli altri eserciti per organizzazione e risultati, pur essendo impreparata all’inizio di fronte agli aspetti nuovi e impressionanti del conflitto".

Vengono ricordate alcune eccellenze, la Scuola di Applicazione di Firenze, l’Università Castrense, le strutture di pronto intervento. Così come Caremani sottolinea strutture precarie quali le sale operatorie, specie quelle a ridosso del fronte dove "la disinfezione pre e post-operatoria avveniva tramite batuffoli di garza impregnati con tintura di iodio e soluzioni di acqua ed alcool puro"; un po’ meglio la situazione delle sale operatorie nelle retrovie. Insomma, sia pure con le molte iniziali carenze, la sanità militare della Grande Guerra "ebbe più luci che ombre".

Non c’erano solo le conseguenze delle armi, degli assalti, dei cannoneggiamenti, ma la guerra di trincea ne presentava altre: nuove patologie causate dal freddo, dalla fame, immobilità, fango, pidocchi, topi, assenza di igiene. Ecco un secondo flagello con le epidemie di malattie infettive, dal colera al tifo, dalla malaria alla peste. Sul finire del conflitto si manifestò la terribile pandemia della "spagnola" che i soldati trasmisero alla popolazione civile. Ma al contempo si assiste allo sviluppo di una medicina più moderna e alla introduzione di nuove tecniche nel trattamento dei soldati feriti o ammalati, i medici iniziarono a utilizzare nuovi preparati farmacologici, nuovi metodi più efficaci, furono somministrati vaccini e si attuò una organizzazione più efficiente nello smistamento dei feriti che ridusse oltretutto la sofferenza dei soldati rispetto alle guerre precedenti. "La Grande Guerra fu, come quelle che l’avevano preceduta, un massacro, ma fu significativa la riduzione della mortalità ospedaliera".

Caremani può quindi concludere la particolareggiata analisi su questo aspetto della Grande Guerra, sottolineando come dalla tragica vita in trincea di milioni di soldati, scaturì "un progetto sanitario che, nonostante le ambiguità scientifiche e i limiti etici del suo operare, fu in grado di trasformare l’orrore della guerra in un futuro di pace".