AREZZO
Cronaca

"Era malata". E la uccide. Spara alla moglie affetta da demenza, poi aspetta la polizia

Tragedia della disperazione e della solitudine in un’abitazione di Arezzo. Ottant’anni lui, 72 lei: erano senza figli. "Non ce la facevo più". Le lacrime della donna che li aiutava: "Gliel’avevo detto di farsi aiutare".

"Era malata". E la uccide. Spara alla moglie  affetta da demenza, poi aspetta la polizia

"Era malata". E la uccide. Spara alla moglie affetta da demenza, poi aspetta la polizia

di Sandra Nistri

FIRENZE

Tragedie della disperazione. Definizione che probabilmente non riesce a racchiudere interamente i drammi come quello della morte della 72enne malata di Alzheimer uccisa, ad , dal marito di 80 anni che non riusciva più ad accudirla. Un fatto tragico che apre scenari purtroppo infiniti sulla solitudine di chi si trova a curare un congiunto affetto da demenza senile e su servizi spesso non tempestivi. Ne parliamo con Manlio Matera presidente dell’Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer) di Firenze.

Matera, cosa ci dice un caso terribile come quello accaduto ad ?

"Non ho conoscenza diretta del caso e quindi non mi addentro in valutazioni ma dall’esterno mi chiedo: per due persone che sono sole, non hanno figli, sono anziane e lei con l’Alzheimer, perché non si è potuti arrivare alla scelta di una Rsa? Purtroppo si pensa che queste situazioni si debbano per forza vivere in famiglia. La difficoltà dei familiari è vedere il luogo di vita con gli occhi della persona malata, lo vedono con i propri occhi e vengono fuori i sensi di colpa e si affrontano situazioni impossibili pur di non scegliere la Rsa. Difficilissimo dare giudizi ma una situazione complessa, a livello di Regione, si affronta da diversi punti di vista".

Cioè?

"La qualità della vita di una famiglia che assiste a casa una persona con demenza dipende da alcuni punti: uno sicuramente è la qualità dei servizi, sia sanitari che assistenziali che può ricevere e la tempestività con cui può ottenerli, ma non c’è solo questo. La seconda cosa è anche quella che io chiamo la rete sociale: se una famiglia vive un problema così pesante senza parenti, senza figli, senza amici senza condivisioni, si può arrivare davvero alla disperazione. Terza cosa, non sempre chi vive questi problemi si rende conto dell’importanza di chiedere aiuto. Strano ma succede".

Perché non si chiede aiuto?

"Per sfiducia o per mancanza di conoscenza. Tutti quelli a cui ci si rivolge, dall’assistente sociale, al medico di famiglia, al medico specialista, a volte non brillano per accoglienza e questo crea un clima di sfiducia. Poi però c’è anche un fattore culturale perché il sostegno non significa soltanto avere una persona in casa che dà una mano, se ci si può permettere, ma significa, ad esempio, avere occasioni di sostegno psicologico. Queste opportunità la nostra associazione le dà in presenza ma addirittura, dopo il Covid, anche via telefono o in videochiamata. Su questo siamo indietro perché la cultura tipo oggi è che dallo psicologo ci vai se sei malato oppure se hai soldi da buttare e non è così".

Qual è il ruolo di Aima in questo quadro complesso?

"Noi cerchiamo di spingere le istituzioni a migliorare i servizi, lavoriamo perché se vengono fuori dei risultati dalla ricerca si possano usare concretamente. La ricerca ora sta dando grandi risultati, nel giro di pochi anni ci saranno nuovi farmaci e nuovi metodi di diagnostica, ma le Asl li sapranno utilizzare? Per fare questo dovrebbero innovare il modello dei servizi, portare i medici di famiglia a seguire i casi perché attualmente l’unico che vive sulla superficie questo problema è il medico di famiglia. E questo sarà fondamentale anche nell’ottica delle linee di intervento finanziate dal Pnrr, ad esempio per le Case di comunità; saranno solo strutture vuote o punti di accoglienza e ascolto per i pazienti e i loro familiari? Tutto questo competerà chiaramente alle Regioni".