Arezzo, 23 gennaio 2018 - L’oro dovranno pagarlo a 40 euro il grammo, 5 in più di adesso ma era quello il prezzo ai tempi dell’inchiesta Fort Knox, che portò alla scoperta del più grosso traffico clandestino di lingotti e verghe verso la Svizzera mai allestito. Un’organizzazione in grande stile messa in piedi dal capo dei capi Petrit Kamata e nella quale erano coinvolti 48 orafi (decine gli aretini), condannati alla confisca di beni per un equivalente di 198 milioni.
Con Kamata che risponde per l’intera cifra e gli altri chiamati a pagare in solido fra loro cifre fino a oltre 80 milioni per ciascuno dei tre gruppi partecipi del traffico. Ma come si è arrivati a calcolare somme così iperboliche, tali da rappresentare un vero e proprio «ergastolo economico» per i protagonisti, evidentemente non in grado di raggranellare tanto denaro e dunque obbligati di fatto a lavorare per il resto della loro vita (se ovviamente il verdetto sarà confermato in cassazione) a vantaggio dello stato? Lo spiega adesso il Gup Marco Cecchi nelle motivazioni della sentenza depositate nei giorni scorsi.
Il meccanismo giuridico è molto semplice. Secondo il giudice, che si fa forte di una consolidata giurisprudenza ai massimi livelli, in casi di illeciti del genere, il profitto dell’affare non è dato soltanto dalla differenza fra ricavi e costi (da quello del metallo a quello del lavoro) ma dall’intero valore delle transazioni con la Svizzera. Cioè dal totale di quanto i protagonisti hanno movimentato nel corso del contrabbando.
Bene, a questo punto basta prendere i numeri del traffico ricostruiti dalla Guardia di Finanza e fare i conti. Prendiamo Kamata come esempio. A lui vengono addebitati movimenti d’oro per 4 tonnellate e 973 chilogrammi. Che corrispondono appunto ai 198 milioni della confisca. E’ sufficiente fare una semplice divisione per scoprire come il metallo sia stato valutato 40 euro al grammo. Più del fixing attuale ma in linea con quello del 2011-2012, gli anni ruggenti di Fort Knox, quando la fortissima domanda di lingotti come bene rifugio, proveniente soprattutto dalla Svizzera, aveva portato il prezzo al massimo storico, fino a 43 euro.
La posizione delle difese nel processo concluso da patteggiamenti, condanne col rito abbreviato e rinvii a giudizio (a maggio il dibattimento pubblico, ma gli imputati sono una spicciolata) era diversa: il profitto derivava solo dal guadagno «pulito», al netto di costo della materia prima più spese di trasformazione e varie ed eventuali. Un calcolo che non andava oltre i 9-10 milioni complessivi. Sarà quella la linea che verrà ribadita nei ricorsi che gli avvocati aretini si preparano a far partire verso la Cassazione, unico grado di giudizio in caso di patteggiamenti.
Ma di ricorsi alla suprema corte ne erano già stati formulati altri, dagli avvocati di fuori, già ai primi dell’anno. La tesi era che il dispositivo del verdetto, quello letto in aula il 9 novembre, fosse già una vera e propria sentenza e che perciò fosse tutto nullo per mancanza di motivazioni. Ma Cecchi ha spiazzato questa argomentazione depositando appunto le motivazioni vere e proprie. Ora i ricorsi rischiano di essere dichiarati nulli dalla cassazione e c’è incertezza sul fatto che ne possano essere presentati di nuovi. Un groviglio nel quale si trovano impigliati molti imputati, fra cui il più famoso di tutti: Kamata, col suo ultimo referente aretino Michele Ascione.