GIAN PAOLO
Cronaca

Guglielmino degli Ubertini, un po’ Vescovo e un po’ Signore alla ricerca del potere

La biografica del prelato che condusse gli aretini alla battaglia di Campaldino in cui trovò la morte. Un bilanco contraddittorio

Gian Paolo

Scharf

Un vescovo del Duecento potrebbe sembrare una figura oscura, distante dal nostro mondo. L’unica nota di luce, di una luce luciferina invero, che illumina la sua vicenda facendo sì che anche l’aretino comune lo conosca, è la sua morte in armi sul campo di battaglia di Campaldino, nel 1289, in uno scontro che vide anche Dante nelle file dei vincitori.

Ma chi fu veramente Guglielmino e perché la sua vicenda ci interessa ancora? Per descriverlo occorre por mente a due condizioni fondamentali della sua figura. La prima: essere vescovo nel Duecento era una condizione ricca di implicazioni. Possiamo dire che la figura episcopale seguì un percorso, non sempre lineare, che la portò da un rilievo politico e spirituale importantissimo a compiti più schiettamente pastorali. Si va dai vescovi conti ai presuli vertici spirituali di una comunità cittadina. Per l’Arezzo duecentesca la situazione si situa in un punto intermedio: Guglielmino non si intitolava più conte, come i suoi predecessori, ma non di meno si comportava come tale. Era cioè un potente signore nel contado, capo di molti vassalli e padrone di numerosissimi castelli; un dominatore meno incontrastato in città, tuttavia, dove il comune gli contendeva la primazia.

Ma Guglielmino era anche altro: rampollo di una potente famiglia signorile attestata fra Casentino e Valdarno, godeva di prerogative signorili anche per questo fatto. E poi era un ecclesiastico, professione questa vissuta assai intensamente. Guglielmino nacque quasi certamente in uno dei castelli di famiglia attorno al 1220. Come era consuetudine nelle famiglie nobili, fu avviato alla carriera ecclesiastica – cosa che fa pensare che non fosse il primogenito – e sedette presto sugli scranni del capitolo aretino.

Ecco, dunque, che iniziamo a capire a cosa fosse destinato il nostro Ubertini: un ruolo di guida spirituale, unito a una posizione di potere. Nel 1247 Arezzo fu privata del suo pastore: Marcellino, un anconetano voluto dal papa (rompendo una tradizione di fedeltà imperiale dei vescovi di Arezzo), si era portato nelle Marche per guidare l’esercito pontificio e sfidare l’imperatore. Catturato, era stato giustiziato come traditore. La scelta del nuovo vescovo cadde dunque su Guglielmino, ma non dovette dispiacere neanche al papa, non ostanti le simpatie ghibelline della sua famiglia.

Ma da subito l’Ubertini prese molto seriamente il suo compito, seguendo un progetto che probabilmente si era già fissato in mente: contestando le pretese comunali di dominio, uscì dalla città, si portò in uno dei suoi castelli e da lì, radunati i suoi vassalli, fece guerra ad Arezzo. Solo qualche anno dopo, probabilmente nel 1251, raggiunto un accordo col comune, poté rientrare in città e prendere possesso della sua cattedra. Non fu certo l’unica volta che Guglielmino si comportò così, e perciò non seguiremo nel dettaglio tutti i suoi affrontamenti col comune aretino. Qualche volta, del resto, i due poteri agivano di conserva, come quando nel febbraio 1258 Cortona, ribelle al suo vescovo (Guglielmino, appunto) fu presa con la benedizione del vescovo.

Più spesso, nella tradizione dei presuli medievali, il coinvolgimento politico era a più alto livello: su richiesta pontificia l’Ubertini condusse una spedizione militare contro Manfredi in Puglia; partecipò, quasi sicuramente, alla battaglia di Montaperti coi senesi (mentre gli aretini erano schierati coi fiorentini raggiunse anche gli emissari imperiali di Rodolfo d’Asburgo a S. Miniato, e ottenne la qualifica (onorifica) di princeps imperii.

Ma questo è solo un aspetto: in realtà la sua attività pastorale non fu di poco conto. Tenne infatti una sinodo in cattedrale, condusse una minuziosa visita pastorale, protesse i francescani, benedisse la nascita della Fraternita dei Laici, ma soprattutto diede l’avvio alle fabbriche del nuovo palazzo episcopale e della nuova cattedrale. Con coloro che contestavano la sua autorità – a torto o a ragione – fu però inflessibile: memorabili sono le sue lotte con il clero cortonese, coi camaldolesi, con S. Margherita da Cortona, che gli rivolse alcune parole di fuoco.

Ma torniamo un momento alla vicenda politica. I repentini cambi di schieramento sarebbero incomprensibili se non si considerasse che egli andò maturando nel corso degli anni una strategia personale, volta a ricercare il potere a prescindere dal partito. Il suo carisma, ma anche la sua fama, ne facevano un capo naturale. In questo modo quando nel 1285 ad Arezzo prevalse un regime ultra popolare, il vescovo si trovò all’opposizione e si rifugiò nei suoi castelli; da là organizzò la riscossa, coagulando attorno a sé tutti gli scontenti. Nel 1287 organizzò un colpo di mano che mise fine al governo popolare, sostituendogli una coalizione dei magnati di entrambi gli schieramenti. Ma fu un momento. Con un altro colpo di mano, pochi mesi dopo, i guelfi furono estromessi, e i magnati ghibellini rimasero soli al potere. Fu naturale che a lui fosse affidata la guida della città, che si trasformò presto in una signoria personale. La piega presa dagli eventi ad Arezzo preoccupò non poco Siena e Firenze. Ciò provocò due anni di guerra ininterrotta fra le tre città, che si sfidarono a più riprese. A dispetto della sproporzione delle forze in campo agli aretini riuscì anche di sorprendere i senesi isolati a Pieve al Toppo, sconfiggendoli nel 1288. Ma l’anno dopo, come è noto, l’orgoglio aretino fu umiliato nella piana di Campaldino, dove anche l’anziano vescovo, che guidava le sue schiere, trovò la morte.

Se già da vivo la sua forte personalità era stata criticata e contestata, dopo la sua morte i commenti negativi si sprecarono. Guittone d’Arezzo si era permesso di alludere a lui definendolo “lupo spartore”, cioè che disperdeva il gregge a lui affidato per farne scempio, invece che pastore. Se il suo comportamento politico difficilmente può sfuggire a una siffatta accusa, visto che Guglielmino cercò di frazionare i partiti politici per poter affermare il suo potere, vogliamo però concludere dicendo che egli fu indubbiamente anche “pastore”, nel senso medievale del termine: sarebbe fuori luogo giudicare un vescovo del Duecento col metro della religiosità contemporanea.