ERIKA PONTINI
Cronaca

Ha trasformato in oro le ragazze del calcio

Parla Massimo Anselmi, l’imprenditore che ha portato la squadra aretina in serie B. "Conservo ancora il primo invito alla sfilata di Dior"

di Erika Pontini

La prima volta che volò a Parigi, ospite alla sfilata di Dior, a Massimo Anselmi tremavano i polsi dall’emozione, giovane e impacciato. Dalla provincia di Arezzo al Tempio dell’alta moda. E quell’invito, il primo di tanti, lo conserva ancora, insieme alla prima sella disegnata da John Galliano, al bracciale di Versace, alla borsetta Dior d’argento oggetto iconico di un defilè, alla verifica fiscale della guardia di finanza. Sì, anche quella, ma ormai sbiadita dal tempo. Gioie e dolori di una vita scandita da successi e strappi, anche dolorosi. Fino all’ultima sfida: prendersi sulle spalle le calciatrici dell’Arezzo e portarle in serie B. Uno schiaffo a quanti denigravano le ragazze con le scarpette e, insieme, la scelta ardita di investire su donne e pallone da parte del numero uno di Chimera Gold. Un’azienda con quarant’anni di storia, 120 dipendenti e una crescita di fatturato del 30% annuo fino alla prospettiva dei 40 milioni nel 2022.

Anselmi, come nasce Chimera?

"Nel 1981 con mio fratello e mio cugino: si trovarono senza lavoro e ci provarono, ma l’oro era costoso, servivano capitali e si spostarono sulla lavorazione di metalli comuni come l’ottone. Io avevo 15 anni li guardavo e provavo l’ambizione di mettermi in gioco. Nell’88 ero in azienda".

E andò bene...

"I primi anni no. Era una piccola realtà, 100 metri quadrati a Castiglion Fibocchi, un appartamento e un garage: facevamo bigiotteria".

La svolta?

"Con Mimmina abbiamo iniziato a produrre per l’abbigliamento, bottoni-gioiello e metalli per impreziosire gli abiti. Abbiamo triplicato il fatturato: in quel momento ho capito che la strada era quella giusta".

Parigi era ancora lontana…

"Nei primi anni ’90 abbiamo cercato spazi nei brand: sono arrivati Enrico Coveri, Versace, un grande lo conobbi a Milano e poi Gianfranco Ferrè".

Quindi i numeri uno

"Ferrè era anche lo stilista di Dior e ci presentò. Me la ricordo ancora la telefonata da Parigi. Dior era l’Olimpo".

Ma come azienda stavate ancora in un garage?

"No, nel ’91 ci siamo trasferiti qui a Ceciliano. Erano mille metri, ora sono 4mila. A settembre apriremo a San Zeno spostando la parte ’gioiello’ mentre le automazioni in 15mila metri quadrati in un ex mobilificio".

E avete iniziato a lavorare per i grandi brand della moda con fibbie e catene…

"Accessori per pelletteria, borse e calzature e oggi abbiamo una divisione gioiello".

Per chi lavoravate?

"I grandi gruppi Kering e Lvmh quindi Yvers Saint Laurent, Chanel ma anche Valentino, Balmain".

E come si fa ad agire in un mercato così vasto?

"Gli stilisti si muovono da un’azienda all’altra e se fai bene ti chiamano".

Diceva, siete crescuti...

"Tanto, dobbiamo ancora digerirla. Nel 2015 abbiamo rimesso ordine nel gruppo. Oltre a Chimera Gold abbiamo altre attività, sia nel mondo dei metalli che dell’immobiliare".

Il Covid per l’alta moda è stato un acceleratore: anche per voi?

"Sì, la nostra crescita è dovuta agli investimenti, la robotica ci ha permesso di passare ai numeri industriali di oggi con un milione di pezzi al mese".

Tutto merito della tecnologia 4.0?

"E della nuova politica dei brand: fanno stock e per noi vale tre volte. Perché nella ripartenza sono mancate le materie prime e nei negozi all’inizio mancavano i prodotti: adesso le aziende fanno scorta".

Il personale manca?

"Siamo alla ricerca di figure specializzate, ma è molto difficile: siamo una fabbrica a tutti gli effetti, la produzione manuale ai giovani fa fatica. La galvanica, l’officina sono lavori che impegnano anche fisicamente".

Nessun inciampo in questi anni?

"Sì, come tutti gli imprenditori, ci sono scelte che possono essere anticipate o sbagliate, io ne ho anticipate alcune".

Eppure lei è diventato noto come imprenditore dopo l’avventura nel mondo del calcio...

"Il calcio mi ha dato visibilità e quella sovraesposizione che è capace di darti ma anche di toglierti. Nel 2018 l’anno della battaglia totale il sindaco fece un appello agli imprenditori. Io non seguivo la squadra della mia città, lo confesso. Un po’ tutti diedero la disponibilità a un supporto economico, io ci misi anche la faccia: era importante che fosse rappresentata l’aretinità".

Ma finì male…

"Fallì la srl, furono saldati i debiti sportivi".

Ci ha rimesso?

"Sì, però lasciamo perdere: è ancora una brutta pagina…".

E quindi le ragazze sono state una rivalsa?

"No, e non mi ha spinto nemmeno la passione per il calcio. Una squadra deve essere amministrata facendo i conti e ragionando come in azienda, altrimenti vai a gambe all’aria".

Niente cuore?

"Sì, ma diciamo che mi salva non essere un tifoso. Altrimenti rischi di farti trasportare dalla piazza, dall’emozione".

E allora cosa le porta?

"Diversifico e mi diverto, è la mia valvola di sfogo , le ragazze nel calcio rappresentano un’innovazione ma sono denigrate".

Appunto...

"Quando ero vicepresidente del calcio maschile c’era disprezzo verso le donne. Non volevano concedere lo stadio e trovavano mille scuse. A me dispiaceva e diventai sponsor per compensare questo trattamento ingiusto, poi mi hanno offerto di rilevare la squadra. L’ho fatto".

Non sarà che è troppo buono?

"E’ una questione etica, mi sono sempre battuto per la parte più debole della società".

Fino ad arrivare in B, bella soddisfazione…

"Nel calcio femminile non è facile niente, anche la prima volta che abbiamo visto la foto sul giornale è stato un traguardo e adesso abbiamo una coppa".

La promozione è stata un traguardo?

"Non è sufficiente".

Cosa sogna allora?

"Il giorno in cui allo stadio saremmo in mille spettatori e ci sarà l’interesse dell’intera città. Dovrà passare del tempo anche se il movimento è in crescita".

Arezzo è orfana di imprenditori che si prendono a cuore i simboli della città, come la squadra di calcio. Perché?

"C’è disinteresse, forse per via delle troppe delusioni. Servirebbero imprenditori locali che prendono il timone di una società e la promuovono per un lungo periodo: per raccogliere risultati occorrono molti anni".

Lei è giovane ma pensa al passaggio generazionale?

"E’ in atto, mia figlia ha 32 anni ed è inserita in azienda insieme a mia nipote. Il futuro sono loro".

Anche quest’anno sponsor delle tribune della Giostra...

"Lo faccio per promuovere un evento, la nostra Giostra".

Il suo quartiere?

"Porta del Foro, la lancia della vittoria ce l’ho in casa".