di Silvia Bardi
C’è una pagina nel ricco diario di Federico Hermanin de Reichenfeld, storico dell’arte e museologo, protagonista del mondo culturale italiano fino alla prima metà del Novecento, che ricorda una delle scene più belle del film “Il paziente inglese”, quando lei legata a una fune con una torcia in mano ammira gli affreschi di Piero della Francesca. E’ quello che succede, ma nella realtà, a questo studioso di Bari che per tutta la sua vita ha lavorato per la conservazione del suo amore più grande, le opere d’arte, la scena della scoperta del duecentesco affresco del Giudizio Universale di Pietro Cavallini a Santa Cecilia in Trastevere.
“Era la prima volta che entravo in un monastero femminile di clausura, salì su il coro ed acceso un cerino con esso illuminai le pitture e mai mi dimenticherò di quell’istante, la più bella testa di angelo medievale, che avessi mai vista, al disopra di una soffice nuvola di piume rosacee, fra due ali. Sentii subito che ero dinanzi ad un grande capolavoro pittorico, ad una delle più belle pitture medievali mai viste”.
La testimonianza di Hermanin de Reichenfeld, a metà strada tra la memoria autobiografica e il diario, è stata trovata nell’archivio inedito di Hermanin da Serenella Rolfi, studiosa di arte moderna prematuramente scomparsa. Uno scritto che diventa un affresco della vita culturale del Novecento e riapre la spinosa questione del “Museo negato” quando Mussolini si stabilisce a Palazzo Venezia. Una storia che ricalca quelle di tanti amanti dell’arte che durante la guerra cercarono di salvarne i capolavori. Pagine di vita privata e personaggi famosi che vanno dal 1880 al 1950, gli studi di filologia e storia dell’arte a Roma tra amicizie colte e incontri sorprendenti come con Pascoli: “Pascoli mi condusse, dalla Biblioteca, al vicolo del Piombo, in una famosa trattoria, dove ordinò una bottiglia di ottimo cesanese. Così alla semplice, sempre un po’ rusticano, alieno da pose e da magniloquenze, candido, affettuoso lo conobbi. ”.
Diventa funzionario delle Belle Arti e assume incarichi di rilievo, fino alla direzione della Galleria nazionale nel 1908, poi soprintendente alle gallerie e ai musei del Lazio. La sua missione è l’allestimento museale e il restauro di Palazzo di Venezia. Ma, c’è un ma pesante come un macigno: “Il 25 dicembre del 1922 una telefonata improvvisa mi chiamò a Palazzo di Venezia, dove trovai Benito Mussolini con Margherita Sarfatti e mi si chiese di mostrare che cosa avevo scoperto ed esporre ciò che desideravo di fare. Non mi parve che Mussolini comprendesse veramente ciò ch’io volevo fare.. Purtroppo la sua improvvisa decisione, nell’estate del 1929, di porre la sua residenza nel Palazzo di Venezia, guastò l’opera mia, ficcando l’elemento politico in un luogo, in cui io volevo regnassero sovrane solo la storia e l’arte. Mai avrei pensato che nella Sala del Mappamondo, decorato da Andrea Mantegna si sarebbe posto a sedere, Benito Mussolini”.
Nonostante gli sforzi di salvare il patrimonio artistico italiano dai saccheggi, Hermanin appena finita la guerra nel 1945 viene additato e perseguitato come elemento vicino al regime e deve dimettersi, lasciare i suoi incarichi: “Chi mi conosce sa che non sono mai stato fascista e che ho semplicemente lavorato e sofferto perché Roma e l’Italia avessero un museo di più e non certo indegno”.