Fin da piccola, Rachele Venturin aveva sviluppato un desiderio di equilibrio, stabilità e appartenenza, comprendendo poco, probabilmente, il motivo per cui i suoi genitori, di professione infermieri, non si accontentavano di una vita familiare normale, passando da un’esperienza di vita all’altra, in Italia e in giro per il mondo, arrivando perfino a fondare una comunità nella provincia di Biella o a gestire, insieme ad altre tre famiglie, un’azienda agricola biodinamica a Suvereto. La sua vita è stata un viaggio continuo tra Africa, Medio Oriente, Europa e ritorni temporanei in Italia.
Da adulta, forse, non avrebbe immaginato un cammino altrettanto ricco di avventure ed esperienze, o, più probabilmente, si è solo lasciata guidare dalla volontà di dare nuovo significato alle esperienze vissute da bambina. "Per fortuna siamo fragili" è l’autobiografia che racconta quasi cinquant’anni della sua vita, dalla nascita nel 1974 a Meru, in Kenya, dove cresce con i suoi tre fratelli e i genitori, fin quasi ai nostri giorni. I continui viaggi, i cambiamenti di abitudini, le fanno vivere un rapporto contrastante con i genitori: "Da una parte capivo l’urgenza del loro impegno che rifiutava il gretto menefreghismo egoista della società, ammiravo il loro coraggio e la loro tenacia, ma dall’altra agognavo una ‘normalità’ familiare". Ma, il viaggio continua, destinazione Congo: "Furono davvero tante, le cose che imparammo in quei tre anni, più che a scuola, vivendo. Alcune mi segnarono così nel profondo, da ispirare e influenzare diverse mie scelte future". È un bagaglio culturale importante quello che riporta dalle esperienze nel continente africano: "Imparai che nel corso dei secoli gli occidentali in Africa avevano schiavizzato, ucciso, depredato, maltrattato. Avevano denigrato e messo a tacere le culture indigene, spezzato il loro orgoglio, svilito le loro conoscenze, rubato loro ricchezze e materie prime".
Comincia quasi a sentirsi in colpa per essere nata nella parte giusta del mondo: "Vedevo l’ingiustizia della miseria in cui viveva la maggior parte delle persone e tutti i privilegi delle classi abbienti, preti, suore, medici, volontari e cooperanti, grandi commercianti e militari, circondati dalla loro servitù e dal loro benessere. Che lo volessi o meno, erano gli stessi nostri sporchi privilegi! Qualunque pensiero di solidarietà e buoni intenti avessi dentro, ero e restavo sempre una ‘musungu’. La cosa mi rattristava, ma era un’eredità ineludibile (...) il colore della mia pelle mi relegava, senza che potessi sottrarmene, alla mia identità occidentale, con tutto lo strascico di tragiche eredità che volevo riempire di nuovo senso".
Dopo il ritorno in Italia, a Suvereto, e gli anni del liceo a Livorno, Rachele si trasferisce in Germania, innamorata di Christian, decisa, guarda caso, a studiare antropologia. Ma, la sua vita è destinata a cambiare ancora quando incontra Hossein, un iraniano fuggito dopo la rivoluzione khomeinista. Una relazione complicata che terminerà nonostante la nascita della loro figlia Khorshid. Ancora determinata a dare nuovo significato alle esperienze del passato, Rachele inizia a lavorare come mediatrice culturale. Si innamora di Sauro, conosciuto a un corso di teatro sociale, affronta con tenacia la depressione e la riabilitazione da un aneurisma cerebrale, scopre la fragilità umana e la bellezza di esserlo quando Sauro le scrive: "Siamo fragili, sì, per fortuna! così ci possiamo tenere insieme!".