De Fraja
La meraviglia, il senso di cosciente e positivo stupore, stupore anche dinanzi alla consapevolezza di una illusione creata ad arte, da sempre attrae ed affascina: meglio ancora se non si comprendono le cause della meraviglia lasciando così che i sensi siano ingannati. Non importa quale che sia il mezzo per la creazione della meraviglia e questo, nella storia, ha comportato seri rischi per chi attuava pratiche difficilmente comprensibili ai più divenendo, così, automaticamente pratiche diaboliche. Del resto si trattava di semplici illusioni non immediatamente intuibili ma mai di attività inspiegabili, casomai – al tempo- inspiegate.
Ed infatti "La più bella sensazione è il lato misterioso della vita. È il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell’arte e della scienza pura. Chi non è in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti". A scrivere era Albert Einstein nel 1934, in "Come io vedo il mondo", in bilico tra fede e scienza trovando forse una risposta per la loro convivenza. In fondo, lo stupore è la molla per la conoscenza.
Due personaggi aretini davvero singolari hanno saputo cogliere e tramandare, forse non del tutto consapevolmente, il senso dello stupore piacevole. Luca Pacioli un personaggio in cui due lati del carattere riuscivano perfettamente a convivere, anche perché solo oggi considerati complementari, era un religioso ed attento economista con la passione per i rompicapo e giochi matematici. L’altro personaggio, era Pietro Aretino, indiscusso letterato con personalità caratterizzata, secondo la storia e le opere, da un’emotività pervasiva ed eccessiva e per un comportamento molto marcato di ricerca di attenzioni, mediante comportamenti celatamente o apertamente seduttivi.
Luca Pacioli si distinse tra i pionieri nell’esplorare lo stupore della "matemagica" puntando sull’intrattenimento (si veda l’interessante volume di Vanni Bossi, "Mate-magica. I giochi di prestigio di Luca Pacioli"). Il "De viribus quantitatis" oltre ad essere un testo tecnico di applicazioni della scienza si configura come un vero e proprio libro di intrattenimento. Nel 1478, raccolse infatti nel volume una serie di "esperimenti" di lettura del pensiero e abilità di chiaroveggenza, ovviamente illusioni derivanti da speculazioni matematiche. Alcuni consentivano di indovinare un numero scelto mentalmente: "Ho selezionato un numero nella mia mente, chiedo quale numero ho scelto e fammi conoscere la regola in modo che possa applicarla a chiunque me lo domandi".
Uno di questi trucchi, il settimo della serie, permetteva di determinare quante monete una persona aveva preso in mano, senza che il mentalista ante litteram potesse vedere. I principi che sottostavano a questi giochi di divinazione erano così complessi da catturare l’attenzione delle menti più brillanti del Medioevo. Altri trucchi di Luca Pacioli consentivano di indovinare quale sassolino era stato scelto, quanti punti mostrasse un dado nascosto, in quale dito fosse infilato un anello dietro la schiena e quale carta fosse stata pensata. In un secondo trattato più esteso, il religioso introdusse l’idea di coinvolgere una seconda persona: un "fanciullino" addestrato a seguire alcune regole matematiche per scoprire un numero scelto. Con le istruzioni di Pacioli, il giovane poteva rimanere in una stanza separata, fingendo di ricevere informazioni telepatiche dal mentalista. Le "mathematiche discipline" destano stupore e meraviglia ed oltre ai risultati fisici e tangibili gli “effechti” teorici sono talvolta paradossali e fonte di stupore soprattutto fra "i rozzi" ma anche fra "i docti theorici". Mariano Tomatis, scrittore ed illusionista, riassume sotto il profilo storico questi temi in "Te lo leggo nella mente" ed a lui devo l’avermi reperito il lavoro di Marco Pusterla sulle "Carte parlanti" di Partenio Etiro, alias Pietro Aretino.
La prima edizione de "Le Carte parlanti", pubblicata nel 1543, oltre ad avere un valore letterario significativo, contiene episodi e riflessioni sul gioco delle carte, un passatempo classico del Rinascimento. Le carte in questione sono i Tarocchi, e il libro specifica che venivano utilizzate sia per il gioco che per la divinazione, attraverso le loro immagini allegoriche, suscettibili di infinite interpretazioni. Una sezione modesta del testo si occupa della "cartomagia", presentando, tramite un dialogo tra il "Padovano" (un prestigiatore di Forlì, in realtà) e le "Carte", una serie di effetti, ossia giochi e tecniche di prestigiazione, con le carte. Tuttavia, il vero centro dell’attenzione è il maggiordomo del conte modenese Rangone, comandante delle truppe della Serenissima, un amico del conte del quale l’Aretino godeva della fiducia e grazie al quale poteva osservare attentamente il "cartaio".
La prosa dell’Aretino nasconde fondamentalmente tre effetti di illusionismo con le carte, giochi noti all’epoca ma documentati solo nel 1593 da Horatio Galasso in "Giochi di carte bellissimi", cinquant’anni dopo le osservazioni dell’erudito aretino. Sebbene solo due pagine siano dedicate a questi tre effetti di intrattenimento, l’Aretino lascia molto più spazio alle tecniche dei bari. Il volume, comunque, è principalmente focalizzato sul gioco d’azzardo e presenta una serie di artifici che includono la segnalazione delle carte, la manipolazione occulta delle stesse e la sostituzione ingannevole delle carte con tecniche più o meno sofisticate. L’opera letteraria si rivela così un’analisi sulla psicologia del gioco delle carte e sulle conseguenze di un gioco imprudente, con esempi tratti dall’esperienza personale dell’Aretino; un libro che, tra le righe, descrive tecniche illusionistiche per manipolare carte, spettatori e giocatori.