
Negli anni ’50 Amintore lanciò una campagna di opere forestali. Oggi si deve intervenire soprattutto sui terreni collinari e montani
Cardinali Il torrente Rimaggio il 14 marzo scorso è esondato provocando l’allagamento di Sesto Fiorentino. In poche decine di minuti si sono verificati gravi danni alle infrastrutture di trasporto e ai piani bassi dei fabbricati. Si tratta di un modesto corso d’acqua che nasce alle pendici di Monte Morello. Scende giù prima tra i boschi, poi tra gli orti sino a giungere ai centri abitati. L’evento di una settimana fa è simile a quello avvenuto alla periferia di Arezzo il 27 luglio 2019 che causò una vittima a Olmo, interruzione della strada regionale 71 e devastazioni a Olmo, Rigutino e, nel versante opposto delle colline, al Bagnoro. Le portate di piena provenivano dai rii del monte Lignano: Rio Grosso, Rio della Valle, Rio di Pigli e altri minori. Gli eventi temporaleschi che in poche decine di minuti ingrossano torrenti hanno preso il nome di “bombe d’acqua”. Giampiero Maracchi, scienziato di fama mondiale scomparso nel 2018, sdoganò per primo l’espressione “bomba d’acqua” per definire una pioggia violenta di poche ore equivalente alla pioggia di un anno. Maracchi è stato fra i primi luminari a certificare il cambiamento climatico, dopo l’evento del 19 giugno 1996 che colpì l’Alta Versilia. In poche ore caddero 400 millimetri di pioggia su un modesto fazzoletto di terra. Bilancio finale: 13 morti e 1500 sfollati. Negli anni successivi sono state interessate altre località della Toscana e diverse regioni italiane con fenomeni che un tempo capitavano ogni dieci anni e adesso si ripetono più volte in un anno. L’Autorità di Bacino del fiume Arno, nel 1999, definì la strategia per la laminazione delle piene, cioè la riduzione delle portate di piena, tramite casse di espansione, cioè sistemi di deviazione delle piene verso bacini artificiali in grado di rilasciare lentamente le acque a valle. Si tratta di una soluzione non valida dovunque. Può andare bene per i corsi d’acqua principali e per fondovalle densamente popolati. In ogni caso le casse previste per il Casentino e il Valdarno, gli interventi sulle dighe di Levane e La Penna, tutte opere in grado di trattenere 86 milioni di metri cubi di acque di piena a monte di Firenze ancora oggi attendono di essere realizzate. Per difendere le comunità e i beni materiali dalle piene provocate dalle bombe d’acqua occorre intervenire soprattutto sul territorio collinare e montano. Si tratta di un’area vastissima abbandonata da decenni, senza più alcuna presenza umana, senza un’efficace vigilanza sulla rete minore per prevenire il dissesto. Lo scrittore Maurizio Maggiani, dopo un ennesimo movimento franoso alle Cinque Terre, fu interpellato da un giornalista su come affrontare l’epoca dei frequenti dissesti idrogeologici. Rispose con saggezza: "Io ce l’ho una proposta. Se ne esce con Fanfani: negli anni Cinquanta lanciò una campagna di opere per il ripristino del territorio... In Italia oggi sono disponibili decine di migliaia di giovani uomini e donne per ripristinare il territorio?". Lo scrittore pensava a una legge analoga alla numero 991/1952 in favore dei terreni montani ma chiuse con un: "Non lo so, oggi forse no...". Al contrario bisogna sperare nel ripopolamento della campagna e della montagna. La Toscana degli anni Cinquanta dava una immagine splendida del buongoverno delle acque e dei suoli, i contadini erano poverissimi e le donne, per prime, non vedevano l’ora di emanciparsi nelle città, più degli uomini, ancorati fino allo sfinimento alla terra. Quella campagna toscana priva di diritti per i contadini poi ha perso anche il mirabile ordine costruito nei secoli. Nell’Italia del disastro idrico e geologico le frane sono tredici volte quelle registrate nell’Ottocento, quando la superficie totale dei boschi era il trenta per cento in meno di quella attuale. Sembra un paradosso ma non lo è: quando il bosco serviva alla comunità era meno esteso ma veniva curato in ogni angolo, la montagna e la collina erano terrazzate, la rete di scolo superficiale estesa e ordinata, le arature avvenivano a cavalcapoggio o a girapoggio, mai a ritocchino. Nelle strade vicinali e poderali venivano conservati i “risciacqui”, tagli trasversali per far defluire l’acqua piovana verso il bosco. Oggi è raro notarli, non esistono più. Il bosco si è esteso ed è un fatto positivo ma ha riconquistato in modo caotico i terreni agricoli collinari e montani, sono scomparsi gli animali più abituati a vivere con l’uomo e sono aumentati i cinghiali in numero abnorme e con effetti devastanti sulla stabilità dei terrazzamenti. Alla distruzione del sottobosco provocata dai cinghiali, si aggiunge quella provocata dal trasporto di legname con enormi trattori e pesanti rimorchi, le moto da cross o i quad. Le strade forestali sono sempre più erose e infossate e, in situazioni meteo estreme, diventano torrenti tumultuosi che depositano fango e detriti a valle. La cosiddetta “agricoltura o attività forestale di presidio” richiede un attento lavoro di controllo che può essere solo e soltanto manuale, una volta ci pensavano i contadini,adesso ci vorrebbe almeno un operaio per ogni cinque ettari. I cantieri degli anni Cinquanta furono replicati negli anni Ottanta, per i lavoratori in mobilità che non avevano più prospettive di rientro, con il programma dei lavori socialmente utili. Negli anni successivi tanti annunci e iniziative ma con scarsi risultati concreti. Infine sento l’obbligo di ringraziare per queste riflessioni Adriano Gradi che ho avuto la fortuna di conoscere sugli scranni del consiglio provinciale di Arezzo. Il professor Gradi è stato dirigente del Corpo Forestale dello Stato e docente universitario di scienze forestali, nel 1957 iniziò a occuparsi di sistemazioni idraulico-forestali, di rimboschimenti e dell’applicazione delle leggi a favore della montagna. Ho il ricordo dei suoi viaggi in bici sportiva e ci siamo ritrovati in molte escursioni sul sentiero della vecchia ferrovia dimenticata Arezzo-Fossato di Vico. Nel luglio 2020, ormai novantenne e due anni prima della sua scomparsa, mi intrattenne a lungo durante la manifestazione “Poti da salvare” sullo stato pietoso di quella che una volta era la montagna degli aretini. Alcuni giorni dopo mi consegnò un suo saggio: "Dai Greci e Romani ai Germani ed ai giorni d’oggi: mitologia, religione, economia e conservazione, distruzione delle foreste". Un grande intellettuale che mi fa venire in mente Antonio Cederna quando negli anni del boom economico e della speculazione edilizia scriveva che la cura costante del nostro territorio è anche la miglior garanzia per la tutela del paesaggio ed è la più grande opera pubblica, perché "la pratica della tutela e della manutenzione non è una scelta di partito ma un istinto di civiltà".