Brilli
Nel linguaggio corrente il termine chimera sta a indicare qualcosa di indefinito, di fantasioso e, in pari tempo, di difficile realizzazione. Esso sembra derivare dal nome classico dell’animale mostruoso il quale, per come veniva raffigurato nel mondo antico, era l’incarnazione di forze malefiche e distruttrici. Fra le tante raffigurazioni di questa fiera fantasiosamente composita, quella più imponente, drammatica ed esteticamente affascinante è rappresentata dalla Chimera in bronzo di Arezzo. La fiera ha il corpo e la testa di leone furente, il dorso irto di squame di drago sul quale si innesta la testa di capra selvatica, e la coda in forma di serpente con il capo che addenta uno dei corni della capra.
L’esemplare aretino della Chimera venne casualmente rinvenuto il 15 novembre 1553 fuori Porta San Lorentino, durante i lavori di scavo del fossato antistante uno dei bastioni delle mura urbiche che erano all’epoca in via di costruzione. La cronaca dell’evento viene narrata nella relazione ufficiale del magistrato, oggi conservata nell’Archivio di Stato della città, nella quale sembra di poter cogliere lo stupore e la sorpresa degli scavatori dinnanzi allo "insigne monumento degli Etruschi" emerso inaspettatamente dalle viscere della terra per sconfiggere l’oblio dei secoli.
Nella sua lingua forbita, la relazione specifica testualmente: "Era un leone di bronzo fatto con maestria e eleganza, di grandezza naturale, di aspetto feroce, furente, forse per la ferita che aveva nella coscia sinistra, teneva irte le chiome e spalancate le fauci, e come un trofeo da ostentare portava sopra la schiena una testa di capro ucciso, che perde sangue e vita". La relazione informa inoltre che, con la Chimera, erano state trovate numerose statuette bronzee di piccole dimensioni raffiguranti uomini e animali.
Resta comunque senza risposta l’interrogativo se, in origine, la Chimera fosse stata ideata come parte di un gruppo composto dai comprimari del mito classico al quale appartiene. Narra il mito che, contro la fiera mostruosa la quale avvelenava città, campagne e ogni altra testimonianza di civiltà con il suo alito di fuoco, si scagliò Bellerofonte, l’eroe positivo il quale, in groppa a Pegaso, il cavallo alato, soleva combattere ogni forma di barbarie.
Come specifica la relazione, la Chimera appare infatti ferita e proprio l’espressione di questa sua carica furente dovette affascinare il duca di Toscana, Cosimo I dei Medici. Anche su consiglio di Benvenuto Cellini e di Giorgio Vasari, questi volle che il reperto fosse portato immediatamente a Firenze.
Si narra che, insieme a Cellini, si fosse addirittura dedicato ad eseguire la pulitura degli incavi del reperto con certi minuscoli punteruoli. Fin da subito non sfugge a Cosimo la carica simbolica che la Chimera sprigiona. Prima ancora che un eccezionale reperto archeologico, ai suoi occhi essa assume il valore di un manifesto politico. Suo tramite, Cosimo può alludere alla sconfitta di coloro che si oppongono al suo sogno grandioso che è la riunificazione dell’antico regno d’Etruria.
Lo conferma Giorgio Vasari il quale, parlando della fiera a tre teste nei Ragionamenti, afferma: "Ha voluto il fato che la si sia trovata nel tempo del Duca Cosimo il quale è oggi domatore di tutte le chimere".
Sono numerose le testimonianze di coloro che rimasero colpiti dalla comparsa inattesa della Chimera che, in un primo momento, viene sistemata in Palazzo Vecchio e poi nella Galleria degli Uffizi. Naturalmente se ne occuparono nell’immediato i conterranei, per così dire, del reperto. Sempre nei Ragionamenti, Giorgio Vasari si riferisce alla Chimera considerandola una prova dell’abilità degli Etruschi nell’arte della fusione in bronzo. Gli aretini che si trovano lontano dalla città chiedono di essere informati in maniera dettagliata del ritrovamento, come fa Pietro Aretino che scrive da Venezia.
L’effetto della sorpresa e della meraviglia non è venuto meno a tutt’oggi in chi contempla la Chimera. Essere al suo cospetto significa colloquiare con un’opera nella quale dialogano due diversi linguaggi stilistici efficacemente integrati. Per un verso c’è il realismo naturalistico che, nella configurazione scheletrica e muscolare del corpo della bestia, evidenzia un’abilità degli artefici etruschi che non ha nulla da invidiare alla tradizione greca. Con somma perizia essi evidenziano la tensione spasmodica della belva ferita che si ritrae come una molla prima del balzo finale.
Per altro verso tuttavia spicca la stilizzazione volutamente arcaicizzante dell’irta, folta criniera realizzata mediante ciocche triangolari che avvolgono tutto il capo per correre poi lungo il dorso. Solo chi ha raggiunto una effettiva maturità può giocare con linguaggi così diversi e renderli complementari.
Possiamo comprendere pertanto la volontà di Cosimo I di fare della Chimera l’emblema della propria politica. Ma con ben altra legittimità possono gli abitanti di Arezzo considerare la Chimera un tassello prezioso della loro identità culturale ed artistica ed esibirla come tale.