WALTER
Cronaca

Il romanzo di Veltroni. Il giovane cronista e un orribile linciaggio nella Roma del 1944

Pubblichiamo un brano del primo capitolo del libro "La condanna" in cui un giornalista di 24 anni riceve l’incarico di indagare sulla tragica vicenda di Donato Carretta. Stasera l’autore è ospite a Montevarchi.

Il romanzo di Veltroni. Il giovane cronista e un orribile linciaggio nella Roma del 1944

Il romanzo di Veltroni. Il giovane cronista e un orribile linciaggio nella Roma del 1944

Veltroni *

So che avere a ventiquattro anni sinusite e claustrofobia, per tacer delle crisi di panico e dell’allergia al latte e ai suoi derivati, mi configura come un soggetto fragile. Il che è pericolosissimo, in questo tempo spietato. Ogni piccolo difetto sanitario o psicologico, ogni incrinatura della richiesta e obbligatoria perfezione, può essere un buon motivo per metterti alla porta, per dirti che purtroppo le esigenze della Compagnia richiedono una riduzione del personale: "Dopo il Covid... dopo la guerra... dopo il crollo di Wall Street... dopo le cavallette... dobbiamo ridurre gli organici. Poi l’intelligenza artificiale, sa...".

Quella che era al mio posto l’hanno licenziata così, da un giorno all’altro. Che poi “licenziata” è una parola forte, visto che aveva solamente un contratto a tre mesi: "Si comincia sempre così. Basta entrare...".

Il capo della redazione interni, che lavora al giornale da quando è stato fondato, negli anni Ottanta, ne ha visti passare a dozzine. "Basta entrare" dicono. È una presa per i fondelli. Qui non assumono più nessuno da anni. Passano decine di ragazze e ragazzi, che arrivano in redazione con il sole negli occhi. Pensano davvero che “si comincia sempre così”, che l’assunzione è alle porte. Nella mia fantasia li vedo tutti insieme, quelli che si sono succeduti in questi anni, mentre rendono omaggio al direttore e al proprietario – uno che di giornali sa quanto io di ornitologia – e dicono loro in coro, consapevoli: "Ave, morituri te salutant". La ragazza che c’era prima di me è stata messa alla porta perché una volta aveva avuto una crisi di pianto per il modo in cui il direttore l’aveva trattata. Per telefono, perché da dopo il Covid, con la scusa del Covid, lui in redazione non viene mai. D’altra parte il giornale ha ridotto la foliazione e in questo grande stanzone siamo rimasti davvero in pochi. La sera lasciano me, il più giovane, perché anche loro, quasi tutti ultracinquantenni, dicono di avere, o fingono di avere, improrogabili impegni e immancabili apericene. Si vestono come i loro figli, si sentono loro coetanei, non i loro genitori. Mi sembrano dei fessi. Io il padre non ce l’ho più, ma sono certo che non si sarebbe comportato così. Del giornale, di quello che esce o non esce, strafalcioni compresi, non gliene importa più nulla. Hanno lo stato d’animo di chi sa che il proprio mondo sta per tramontare e quindi se ne sbatte di tutto. "Tra cinque anni i giornali saranno finiti, non lo vedi che non c’è un solo umano sotto i quarant’anni che ne compri uno? Sono stato in un’edicola, ho chiesto un quotidiano e mi hanno guardato come se fossi un marziano. E poi ora arriva l’intelligenza artificiale..." Contano i giorni che mancano alla pensione come può farlo un condannato a vent’anni di galera.

Io non li capisco. Questo giornale non sarà granché – dicono che il proprietario, che lo ha usato perché voleva diventar sindaco e non ci è riuscito, ora voglia disfarsene –, ma è comunque un oggetto che ogni mattina qualcuno compra, legge, magari ne discute il contenuto in famiglia o con gli amici. È una cosa importante, cazzarola! Come fanno a essere tanto cinici, tanto smagati da non curarsene, da non avere amore per quelle pagine stampate ogni giorno e quegli esseri umani che credono nel nostro lavoro e quotidianamente versano un obolo, all’edicola, per pagare lo stipendio di tutti noi?

Io non ho vissuto nel velluto, per me nulla è stato facile. Mio padre faceva il maestro elementare, non il manager o il creativo digitale, e quando un giorno se ne è andato come non avrebbe voluto, un infarto proprio davanti ai suoi alunni, io ho capito che toccava a me. Avevo quattordici anni, figlio unico, mia madre segretaria in uno studio medico. Non potevo far altro che quello che ho fatto: studiare. E avere un sogno, quello che condividevo con papà. Lui mi ha insegnato che i giornali erano la messa laica, che leggerli, metabolizzarli, era l’unico modo di essere cittadini consapevoli. Per sua fortuna non ha fatto in tempo a vedere l’imbarbarimento dell’informazione, drogata dai social, e la crisi dei suoi amati quotidiani, quelli che leggevamo insieme la sera, prima di cena. Però so che sarebbe felice di sapere che il suo unico figlio, Giovanni, ora lavora in un giornale e, quando la redazione si svuota, è responsabile di tutto quello che accade. Gli altri all’apericena e io, da solo per risparmiare, nello stanzone dello storico palazzo del centro dove si trova la sede della mia testata. (...)

Stasera, prima di andare via, il caposervizio della cultura, Sergio Fabiani, mi ha chiamato nella sua stanza. Loro chiudono presto le pagine, sono meno esposti agli imprevisti dell’attualità, salvo lutti e incidenti. È un uomo colto, avrà sessantacinque anni ma non sembra aver perso ancora la voglia di fare il suo mestiere, e mi piace molto la scrivania che tiene piena di libri. Anche stasera ha fatto come sempre, ha parlato senza alzare la testa. Credo che la sua consuetudine con i romanzi sia superiore a quella con gli esseri umani. Anche questa timidezza, che molti scambiano per ombrosità, me lo rende simpatico. E poi è l’unico, qui dentro, che sembra leggere il giornale che scriviamo.

Un giorno mi ha chiamato per discutere un piccolo articolo che avevo messo in pagina, un pezzo di cronaca. Mi ha detto che era ben fatto, ma che l’attacco era sbagliato. E aveva ragione. Questa sensibilità e questa devozione al lavoro lo rendono diverso dagli altri. Mi piaceva che avesse fatto con me quello che mio padre, fino all’ultimo respiro della sua vita, ha fatto con i suoi bambini: insegnare. Una parola che sembra una bestemmia, in questo tempo frenetico e immobile. Invece, quanto è bello incontrare dei maestri, nella vita! Fabiani qualche giorno fa mi ha chiamato, nella sua stanza semibuia, e mi ha detto solo: "Giovanni, tra un po’ devo, o meglio voglio, fare una pagina sul caso Carretta, mi trovi la documentazione?". "Certo, gliela cerco subito." Non riesco, anche se dovremmo considerarci colleghi, a dare del tu a una persona tanto più grande di me. Sono uscito dal suo ufficio e mi sono reso conto, con imbarazzo, che non avevo avuto il coraggio o l’onestà di dire la verità: che io non so assolutamente chi sia questo Carretta.

* autore del romanzo "La condanna" (Rizzoli)