Arezzo, 25 novembre 2024 – “Impossibile”. È convinto che nessuna azienda farmaceutica riuscirebbe a produrre un farmaco per anestetizzare il carattere degli aretini. Eppure nei sei anni al timone della Asl sud est ne è stato “contagiato”. Antonio D’Urso è in partenza per Trento e per una nuova sfida, ma racconta l’esperienza che lo ha segnato. E pure cambiato.
Che D’Urso era quello che sei anni fa sbarcò ad Arezzo?
“Un D’Urso diverso. Ho vissuto insieme alla comunità di Arezzo un’esperienza molto forte, quella del Covid, e la fase di avvio dei lavori di adeguamento e ristrutturazione del San Donato”.
Quanto e come è cambiato rispetto al D’Urso che ora prende la via del Trentino?
“Sono cambiato non solo per l’esperienza acquisita ma perchè ho capito di più quanto è importante l’approccio umano nella gestione della sanità”.
Come racconterebbe ad un marziano gli anni aretini?
“Un’esperienza intensa e stravolgente per le sfide affrontate e per i risultati conseguiti”.
Arrivava dalla Sardegna, ora il Trentino: due terre di poche parole e tanti fatti. Qui le hanno mai dato fastidio le mille parole che l’hanno circondata?
“No. Fanno parte del modo di essere della Toscana e della realtà aretina: è una modalità vivace di esprimere il pensiero”.
Che Arezzo era quella che si trovò a guidare? E oggi?
“La conoscevo perchè c’ero stato come turista e per approfondire la formazione professionale. Ho fatto un percorso di specializzazione a Siena e Arezzo era una delle città più vicine. Conoscevo la realtà sanitaria per gli obiettivi raggiunti dal collega Desideri: una realtà capofila su molte attività con grandi slanci su temi importanti ad esempio sulla sanità territoriale. Ora mi sembra che la realtà di Arezzo sia solida, robusta. Una realtà in cui i ruoli all’interno dell’azienda sono più chiari; sono passati già più anni dall’unificazione nella aslona”.
Si è sentito spesso ripetere che il guaio della sanità erano le aslone: pregi e difetti?
“Sicuramente l’aslona rappresenta uno strumento organizzativo efficace, favorisce il confronto tra i professionisti dei diversi territori e consente una flessibilità organizzativa talmente elevata che ad esempio ci ha consentito di superare brillantemente la fase drammatica del Covid.
E le correzioni?
“L’aslona rischia di omologare il modello organizzativo. Me ne sono reso conto a metà del mio mandato ed infatti ho tentato di riorientare l’organizzazione privilegiando, pur nell’ambito dell’area vasta, una logica si sviluppo provinciale, proprio per rispettare le tipicità dei tre territori”.
È mai esistito un farmaco in grado di anestetizzare il carattere polemico degli aretini?
“Non so, ma dubito che un’azienda farmaceutica possa commercializzare un farmaco per questo obiettivo impossibile”.
L’hanno accusata di aver spento il resto della sanità per vincere la sfida contro il Covid: si rimprovera nulla?
“Proviamo a pensare il contrario. Se non avessi assicurato nell’ospedale di Arezzo il porto sicuro per i malati di Covid, quante vite umane in più non avrebbero avuto la possibilità di stare tra noi?
Come ha vissuto quella fase delicatissima?
“Sapevo il ruolo che avevo all’interno della comunità e pur con la tristezza nel cuore ho cercato di rasserenare gli animi il più possibile e di fornire alle persone il massimo supporto un momento drammatico per tutti”.
Ha mai avuto il timore di non farcela a uscirne vincitore?
Solo chi è arrogante, ed io non lo sono, non teme. Temere significa avere consapevolezza dei propri limiti e tentare di superarli”.
I duelli più famosi di quei mesi sono stati con il sindaco di Montevarchi e con il sindaco di Arezzo, fino ad un tentativo di mediazione dell’allora prefetto: come rilegge quei mesi?
“Erano momenti difficili per tutti. Anche i sindaci avevano una grande responsabilità ed è normale che in quei momenti ci siano state fasi di tensione, peraltro assai limitate rispetto ai 99 sindaci dell’Asl sud est”.
Al suo arrivo mancavano circa una decina di primari: come ha affrontato la questione?
Ho lavorato sia prima che durante il Covid a ripristinare la dotazione di primari perché ritengo tali figure professionali nodali nell’erogazione dei servizi. Lascio un ospedale con pochissime situazioni in cui la nomina del primario è in corso”.
Violenze nei reparti: quali sensazioni le scatenano e se fosse rimasto cosa avrebbe voluto fare di più?
La prima sensazione è rabbia associata a una condizione di incomprensibilità: non capisco come si possa esercitare violenza fisico-psichica nei confronti di un professionista della sanità che si sta occupando di noi. Ho lavorato molto per aumentare la sicurezza passiva nei luoghi di lavoro, nella formazione del personale sanitario e nelle attività di accompagnamento agli operatori sanitari vittime di violenza, dopo il drammatico episodio. Avrei combattuto ancora di più e con maggiore forza”.
Carenza di medici al pronto soccorso: come convincerebbe un suo figlio a scegliere questa specializzazione?
“Gli consiglierei di considerare della professione medica il ruolo sociale ed etico che un medico esercita. E nella professione dei medici di pronto soccorso è molto importante”.
Continua a vaccinarsi contro il Covid o anche lei pensa che oggi possa essere superfluo?
Ho superato i 60 anni da poco e ritengo importante proseguire a proteggermi con le vaccinazioni”.
Le è mai capitato di perdersi nel labirinto del San Donato?
Sì molto spesso. Tanto che c’è stato un momento in cui avevo pensato di utilizzare un avatar sul cellulare per guidare le persone”.
Ha influito sui progetti confluiti negli interventi del Pnrr?
“Sicuramente si”.
La mentalità comune è chiara: la sanità pubblica ha dei limiti e se vuoi superarli devi andare a fare prestazioni a pagamento. Ha mai avuto la tentazione di crederci perfino lei?
“No, perché io sono innamorato della sanità pubblica, diversamente non avrei fatto questo lavoro”.