
Nei Diari il viaggio di Adriana Sensi in 40 anni di lavoro: operaia, poi in politica e nel sindacato. I giorni gloriosi della Lebole .
Arezzo, 9 marzo 2025 – “La Lebole ha rappresentato per tutte noi un’esperienza di vita che nessuna scuola ci avrebbe potuto insegnare… Non è stata solo una fabbrica ma una parte irrinunciabile della nostra vita". Una testimonianza che racchiude la storia di migliaia di donne e di una fase storica cruciale per la città. Ma racconta anche la passione di una donna per il lavoro e la "sua" fabbrica, il costante impegno nel sindacato e nel volontariato. Il nome di Adriana Sensi è legato alla storia della Lebole e delle sue operaie. Vi entrò giovanissima, nel primo laboratorio creato ad Arezzo da Caterina Lebole. Divenne delegata della Commissione Interna e del Consiglio di Fabbrica fino ad esserne la segretaria. Dirigente della Filtea Cgil, è stata la leader storica della leboline fino al suo pensionamento. Ricoprì incarichi politici, poi alla guida dello Spi, il sindacato pensionati della Cgil, quindi dell’Auser regionale dove si è impegnata fino all’insorgere della malattia che non le ha dato scampo. Nella memoria consegnata ai Diari di Pieve, Adriana Sensi consegna a tutti noi un racconto che incrocia impegno sociale e vita privata, l’esperienza in fabbrica, i momenti bui e le risalite. "La mia vita è trascorsa fra alti e bassi, gioie e dolori. Forse lo faccio per dare speranza a chi come me, arrivata alla fine di un percorso lavorativo, vissuto in modo totalizzante, sempre in lotta con il tempo per conciliare gli impegni personali e non priva di sensi di colpa, ha paura di sentirsi inutile (...). Avevo svolto un lavoro coinvolgente che mi appassionava, mi aveva dato la possibilità di avere infiniti rapporti sociali, di conoscere persone che oggi fanno parte della storia. Penso in particolare a no Lama, segretario generale della Cgil nel periodo della mia formazione politico-sindacale, i suoi insegnamenti sono stati per me preziosi". E qui rievoca un 8 marzo vissuto tutto d’un fiato. "Che bella giornata l’8marzo 1980!", celebrato da Lama "all’interno della Lebole. Per me e le colleghe un giorno indimenticabile, sono certa, piacevole anche per Lama. Lo vedevo sorpreso, meravigliato da tanto entusiasmo e dalla capacità di analisi sui temi politici, sindacali; che le delegate sapevano esprimere durante la riunione del Consiglio di fabbrica". Un snodo cruciale per lei che nella memoria custodita nell’Archivio dei Diari di Pieve, evidenzia il travaglio interiore di una donna sempre in prima linea. Il lavoro, è la chiave attraverso la quale Sensi nel suo racconto apre il suo mondo e riallaccia i fili della memoria. Il lavoro "mi ha dato autonomia economica, dignità, libertà, speranza per un futuro migliore, mi ha permesso di fare emergere la mia identità. Valori conquistati attraverso tante iniziative di lotta. I miei quarant’anni di lavoro, mi hanno lasciato fra tanti bei ricordi di conquiste, di rapporti umani, anche molti segni negativi. A volte, affiora in me il ricordo di aver subito tante umiliazioni, la fatica per raggiungere la produzione, la sofferenza nel vedere colleghe più grandi di me che quando superavano l’età dell’apprendistato, o se aspettavano un figlio, venivano licenziate. Quindi il traguardo dei diciotto anni e la maternità, i doni più belli che la vita per natura regala, diventavano elementi di di preoccupazione per la paura di perdere il posto di lavoro. Non eravamo capaci di organizzarci, di unirci, trovare la forza per impedire tali ingiustizie, eravamo poche dipendenti e inesperte. Potevamo solo condividere la sofferenza. Questi i fatti più gravi che mi indignavano, ma continuamente dovevamo subire soprusi, per fare alcuni esempi di fatti concreti, ricordo che svolgevo una fase ad una macchina per cucire, collocata accanto a una finestra, i proprietari della fabbrica venivano spesso a controllarci, anche in compagnia dei loro figli. Un mattino una bambina si fermò davanti a me, tentando di arrampicarsi alla finestra, io le sorrisi e le dissi di non farlo perché poteva cadere e farsi male, lei mi guardò imbronciata e mi disse che meritavo una multa per essermi distratta. Quel fatto fu per me una lezione indimenticabile. Compresi subito che occorreva lottare per dimostrare la dignità di chi svolge il lavoro, alla pari di chi lo offre. Un giorno il mio carattere ribelle mi fece reagire d’impulso". Rievoca un episodio: "Il responsabile del personale si avvicinò al mio posto di lavoro rimproverandomi e per essere più incisivo mi gettò addosso un pantalone che riteneva confezionato male. Mi colpì al volto, non mi fece male fisicamente, ma l’umiliazione fu tanto forte che non riuscì a trattenere le lacrime, mi alzai di scatto, lasciai il posto di lavoro e in fretta andai a casa. La stessa sera il responsabile venne a scusarsi e mi pregò di ritornare al lavoro". Quella piccola Poi l’avvento della grande Lebole, un altro tornante per Adriana. "Alla fine degli anni Cinquanta, i fratelli Lebole costruirono una grande fabbrica, che occupò in breve tempo oltre 5.000 dipendenti. Per me, fu una buona opportunità, a diciotto anni fui assunta come operaia, era il realizzarsi di un sogno: un lavoro, uno stipendio, una vita autonoma; ben presto il sogno cominciò ad incrinarsi. Dovevo fare i conti con fasi monotone ritmi esasperati (...)". Ma "il mio lavoro non è stato solo fare la produzione. Dopo la conquista dello Statuto dei Lavoratori, avevamo eletto i delegati di reparto e il Consiglio di Fabbrica, io svolgevo il ruolo di segretaria. Ricordo com’era bello fare le assemblee, e poter dire che avevamo ottenuto miglioramenti salariali e normativi. Che gioia e soddisfazione, quando le nostre conquiste aziendali erano riconosciute dal contratto Nazionale". E dopo tanto tempo e tanto impegno "la fabbrica rimane per me la migliore e autentica formazione, una scuola di vita, la mia università".