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"Io, migrante in viaggio per la vita". Pasquale ha lasciato tutto e racconta

"Sono salito di colpo su una barca e sono partito: ho sentito i miei dopo mesi. Non avevo scelta". CLASSE V E SCUOLA BURBASSI LEVANELLA. .

"Io, migrante in viaggio per la vita". Pasquale ha lasciato tutto e racconta

Pasquale è un professore di storia di origine albanese laureato in filologia e filosofia, arrivato in Italia all’età di 30 anni in cerca di libertà e democrazia. Il suo viaggio è stato "un salto nel buio". Oggi la sua storia è un esempio di onestà e integrazione.

Perchè ha deciso di venire via dal suo paese?

"Per le condizioni economico-sociali. Dopo la fine del regime, le promesse fatte al popolo non furono mantenute. Cominciarono le lotte di classe, le imposizioni, il controllo sull’informazione. La popolazione non aveva nulla, il cibo era razionato. Non c’erano davvero possibilità di migliorare la propria vita e quella dei figli".

Conosceva la lingua e le abitudini degli italiani?

"Sì, conoscevo la lingua italiana perché all’università ho studiato l’italiano e sebbene non si potessero seguire i programmi italiani di nascosto ascoltavo la radio nella vostra lingua"".

Ma perché ha scelto proprio l’Italia?

"Per la lingua, per la prossimità territoriale e perchè l’Italia negli anni novanta era la quinta potenza economica al mondo".

La sua famiglia era preoccupata per questo viaggio?

"No, la mia famiglia era all’oscuro di tutto. Un giorno ero al porto, ho visto la gente che saliva sulle navi e mi sono buttato. Dopo 4 giorni e 4 notti con un’imbarcazione fatiscente, senza acqua e senza cibo, ci siamo fermati in alto mare. Per sopravvivere bevevamo l’acqua salata. Eravamo stremati ma per fortuna siamo stati salvati da una nave e quindi portati fino al porto di Otranto".

Oggi lo rifarebbe?

"Hegel insegna “Meglio una fine orribile che un orrore senza fine” questo pensavo allora, oggi direi “Mai” anche a costo di morire di fame. Il dolore più grande che ho provato non è stato il viaggio, ma vivere i primi anni qui senza la mia famiglia. Per il primo anno non ho avuto modo nemmeno di chiamare e nessuno sapeva se ero vivo o morto. Di mia moglie e dei miei due figli, piccolissimi, avevo solo uno foto che non riuscivo a guardare per il dolore che provavo all’idea di non averli con me e di averli persi".

Che accoglienza ha avuto in Italia? Sapeva già dove andare ad abitare ?

"Arrivato in Italia sono stato per un breve periodo in un centro di accoglienza, la Caritas ci garantiva cibo e vestiti. Una volontaria aveva una masseria ed ho chiesto se potevo lavorare da lei. Sono stato assunto come lavorante ed ho avuto il permesso di soggiorno, solo così ho potuto fare il ricongiungimento familiare. Questo sacrificio mi ha ricompensato perché i miei figli oggi sono laureati, hanno la possibilità di esprimere liberamente le proprie idee ed avere un futuro migliore".