SALVATORE
Cronaca

La grande letteratura innamorata di Arezzo

Da Boccaccio a Montaigne, da D’Annunzio a Camus, da Garcia Marquez a Saramago: secoli di scrittura ambientati da queste parti

Salvatore

Mannino

Basterebbe Arezzo a far la gloria d’Italia: la citazione da Carducci, che qui insegnò come professore del liceo ancora granducale, è così scontata da scadere quasi nel luogo comune. Qual è l’aretino che non l’ha mai sentita? Eppure di questi tempi in cui la normalità post-Covid sembra avvicinarsi lentamente, forse un pizzico di orgoglio che aiuta la ripresa non fa male. Specie dovesse servire da moltiplicatore di un turismo che da queste parti non è mai stato un piatto forte. Il che non toglie che di visitatori illustri, di grandi scrittori che ne hanno parlato, di artisti straordinari che vi hanno ambientato i loro sogni, di premi Nobel che l’hanno trasformata nello scenario dei loro racconti, di registi che ne hanno fatto il soggetto dei loro film, questa città certo non manchi. E’ il tema dell’Album della domenica, anche nelle pagine che seguono dove Attilio Brilli tratta da par suo il tema dei grandi angloamericani e ci occupiamo pure del cinema d’autore made in Arezzo.

Bisogna risalire addirittura al ’300 per ritrovare i primi accenni letterari, celeberrimi, ad Arezzo e agli aretini. Chi non conosce l’invettiva contro i Botoli ringhiosi scagliata da Dante? E chi non sa che il pozzo di via dell’Orto, quasi davanti alla Casa del Petrarca, è quello del Tofano di una famosa novella del Decamerone di Boccaccio?

Ci vorranno secoli, però, perchè qui arrivino i visitatori stranieri del Grand Tour. Il primo, a fine ’500, è Montaigne, che soggiorna in una lurida locanda di Ponte Buriano. Un viziaccio, quello degli osti, perchè due secoli dopo, nel ’700, anche un gigante della letteratura inglese come Tobias Smollett si lamenterà della sua camera infestata, dalle parti di Camucia, in direzione di Perugia e Roma. Eh sì, perchè Arezzo era lo snodo di una delle due vie per la Città Eterna: o da Firenze per Siena e Viterbo, lungo la Cassia, o da qui verso l’Umbria e Terni. Ci sono passate generazioni di viaggiatori, da Stendhal agli Henry James e Nathaniel Hawthorne di cui parla nella pagina seguente Brilli, col secondo che qui ambientò alcune scene del Fauno di marmo, il suo ultimo grande romanzo. A proposito, anche un altro gigante dell’età vittoriana, il poeta inglese Robert Browning scelse proprio Arezzo come uno degli sfondi del suo poema più famoso, The ring and the book.

Potremmo andare avanti all’infinito, ma forse è il caso di concentrarsi su epoche più recenti, come il ’900, che si apre con D’Annunzio, protagonista nella villa omonima di Petrognano di uno dei suoi amori più veri, quello per la contessa Giuseppina Mancini (Giusini), che ad Arezzo dedica una delle sue odi alle Città del Silenzio. Passano trent’anni e qui arriva John Dos Passos, uno dei grandi autori della Generazione Perduta americana. Ne scriverà nella Riscoperta dell’America, immaginando funi per arrampicarsi a guardare meglio gli affreschi di Piero in San Francesco. Preso alla lettera qualche decennio dopo da Michael Ondatje, scrittore canadese del Paziente inglese, da cui è tratto l’omonimo film, con la scena immortalata dal cinema, anche se con la collocazione posticcia a Pienza.

Già, Piero: riscoperto a partire da metà ’800, è una delle grandi attrazioni aretine di cui si innamorano ad esempio tre recenti premi Nobel: il portoghese Josè Saramago, che ne scrive nel Manuale di pittura e calligrafia, arrivando a parlare di Arezzo, come di uno dei suoi "più saldi amori italiani", o il francese Albert Camus, un gigante della letteratura e della filosofia, che nel 1959 avrebbe voluto tornare, come ultimo atto della vita, nelle campagne della Valtiberina care al pittore. Non sarà accontentato: morirà ancor giovane in un incidente stradale nel 1960, lungo un’anonima strada della Francia centrale. Prima, farà in tempo a raccontare delle sue passeggiate al Prato e lungo la cerchia delle mura.

Il terzo Nobel è il sudamericano Gabriel Garcia Marquez, che qui ambienta uno dei suoi Dodici racconti raminghi, intitolato Spaventi d’agosto: il protagonista alle prese con un fantasma in un immaginario castello, che forse allude a Villa Guillichini, scenario che ci introduce in un’altra grande vicenda culturale, tutta aretina. La villa, infatti, fu acquistata negli anni ’50 da Abel Valmitjana, oppositore del franchismo, che vi ospitò un cenacolo frequentato, oltre che da Gabo, anche da figure del livello del poeta Rafael Alberti e di Pablo Neruda, un altro premio Nobel e poi esule dal Cile dopo il golpe di Pinochet. Di lui molti ricordano che era ghiotto di un piatto tipico come i fagioli con le cotiche.

E come dimenticare una figura d’artista quale Balthus, un gigante del ’900, che prima di venire effettivamente a vedere di persona l’amato Piero si immaginava passeggero fra le vie di una città ancora sconosciuta se non in sogno? Siamo arrivati quasi in fondo, ma resta spazio per ricordare almeno Muriel Spark, uno dei fari della narrativa britannica contemporanea, che a Oliveto ha vissuto gli ultimi decenni della sua vita. Sarà retorica, ma aveva davvero ragione Carducci (a proposito: Nobel pure lui).