SALVATORE MANNINO
Cronaca

La lunga estate "calda" del 1920 Grandi scioperi, cova il fascismo

Riesce l’agitazione socialista nelle campagne per il nuovo patto colonico, ma al prezzo di scatenare. negli agrari la Grande Paura di perdere la terra. Storica sconfitta invece per gli operai della Sacfem.

Migration

Salvatore

Mannino

È una lunga estate calda, questa del 2020, sospesa fra postumi del Covid e crisi economica, ma non meno turbolenta fu quella del 1920, esattamente un secolo fa, nei mesi in cui già incubavano la nascita del fascismo e i primi squilli dello squadrismo, che debutta all’Hotel Balkan di Trieste (il Narodni Dom, restituito proprio pochi giorni fa agli sloveni, in una cerimonia cui ha partecipato il presidente Sergio Mattarella) ma ad Arezzo arriverà solo a fine 1920, per poi dilagare fra il marzo e l’aprile del 1921, violentissima fiammata capace di ingoiare in pochi mesi l’edificio politico-sociale che la sinistra aveva costruito in anni di lotta.

Ma tutto questo nel luglio di cent’anni fa era ancora imprevedibile, se non per qualche sinistro scricchiolio che aveva già investito un movimento operaio e contadino che si credeva ancora all’offensiva e che anzi in settembre si sarebbe prodotto nell’apice del Biennio Rosso, l’occupazione delle fabbriche, che investì anche qui (per fare solo due nomi, i più grossi) la Sacfem e la Ferriera di San Giovanni. Anzi, per dire del clima che dominava allora, le prime settimane dell’estate si svolsero all’insegna della grande agitazione agraria che investì le campagne, costringendo i proprietari terrieri a un’altra, l’ultima, umiliante sconfitta.

I mezzadri, che nell’aretino erano i quattro quinti di quanti lavoravano in agricoltura, erano sul piede di guerra, da quando, a maggio, si era cominciato a parlare di rinnovo del patto colonico, più avanzato di quello del 1919. Il 5 maggio, addirittura, i contadini, appoggiati anche dagli operai cittadini, avevano invaso Piazza Grande, reclamando il nuovo contratto, trattenuti a stento dagli organizzatori socialisti, che avevano faticato a spiegare come prima fosse necessaria la trattativa con gli agrari. L’accordo arrivò dopo pochi giorni, a spese dei proprietari, ma non bastò a riportare la calma nelle campagne, dove l’agitazione riprese in luglio per l’unificazione su scala regionale del patto colonico. Altra trattativa, altra intesa, altra vittoria mezzadrile, ma ottenuta a carissimo prezzo, almeno in prospettiva futura.

Gli agrari, soprattutto quelli piccoli e medi che vivevano nelle città, nelle città e nei paesi (i grandi proprietari, i Budini Gattai, i Frassineto e altre nobili famiglie, invece, osservavano da lontano nei loro palazzi fiorentini) andavano sempre più radicalizzandosi verso destra, spinti da due ordini di motivi. Innanzitutto la Grande Paura di perdere la terra, non tanto per le richieste sindacali, che erano tutto sommato riformiste, quanto per la sconsiderata propaganda socialista che parlava apertamente di socializzazione. La reazione fu un sentimento atavico di resistenza e di rivalsa che poi sarebbe sfociato nell’appoggio al fascismo: proprio in quell’estate 1920 i piccoli proprietari si organizzano in una miriade di associazioni che danno il senso di una classe sociale che non vuole saperne di vedere messa in discussione la propria esistenza.

Anche perchè, rivive in questo ceto, che era stato la base politica, soprattutto in Valdichiana, della sinistra liberal-radicale-giolittiana, un’altra Grande Paura, quella di una sommossa contadina che potesse portare alla distruzione fisica di una categoria, come era successo nel 1799, ai tempi del Viva Maria, quando la rivolta sociale delle campagne era stata strumentalizzata in chiave reazionaria, a danno dei piccoli proprietari sensibili alle sirene rivoluzionarie e giacobine. Non a caso, l’"Appennino", voce del radicalismo aretino, scrive a proposito della ricordata invasione di piazza Grande di un "nuovo Viva Maria".

E’ in questa chiave che va progressivamente cambiando l’atmosfera politico-sociale delle campagne, con gli agrari che non vogliono saperne nè di concessioni nè di socializzazioni e i mezzadri che recalcitrano rispetto a certi metodi della lotta sindacale, come la minaccia di abbandonare le colture e gli animali da fattoria, ricchezza cui pure i contadini non sono facilmente disposti a rinunciare.

E’ un mutamento di rotta che va di pari passo con quello che sta succedendo nelle città, in particolare Arezzo, la più grande. Lì ci sono dei bastioni di potenza operaia che nessuno sembra in grado di scalfire, come appunto la Sacfem, un migliaio di dipendenti organizzati dal più radicale dei sindacati, l’Usi di tendenza anarchica. L’edificio, invece, traballa, sotto i primi segni del riflusso. A livello nazionale, il sintomo è in primavera il fallimento dello Sciopero delle Lancette alla Fiat, dove gli operai volevano imporre il lavoro con l’ora solare e non legale.

Al "Fabbricone" (il nome popolare della Sacfem, che costruisce carrozze ferroviarie) succede lo stesso: il 14 aprile i sindacalisti anarchici ordinano lo sciopero, niente ora legale. La dirigenza, però, è decisa stavolta a tener duro, anzi ad approfittare dell’occasione per liberarsi dei dipendenti più turbolenti politicamente. Vengono inviate dunque 60 lettere di licenziamento, dinanzi alle quali lo sciopero diventa a oltranza, con minaccia di occupazione e sassaiola contro la palazzina della direzione. Serve a poco dinanzi all’intransigenza padronale, alla fine gli operai sono costretti a capitolare, rientrando in fabbrica umiliati e sconfitti. E’ maggio, a dicembre un nuovo sciopero agrario, stavolta dei sindacati cattolici, scatenerà in Valdarno le prime spedizioni dello squadrismo foraggiato dai proprietari.